Tamanranset

Napolitano dice che cosi’ non si puo’ andare avanti.

Il pataccaro a Lampedusa ha promesso di tutto, casino’ e trapezisti, campi da golf e donne cannone.

Il Ministro della Difesa ha mandato affanculo il Presidente della Camera in diretta e quello dell’Interno gioca alla melina con 6.000 profughi, sperando che l’esasperazione li porti a gesti inconsulti da sbattere in prima pagina per impaurire le zie e le mamme, le nonne ed i cuginetti.

La procura ha depositato tabulati telefonici per un’ulteriore dozzina di troie a libro paga dell’utilizzatore finale.

Martedi’, se tutto procede come previsto, si cancella un’altro pezzo di legalita’ nel nostro Paese.

Prendiamoci un momento di distrazione. (solo un momento)

Mi capita ancora dopo tanti anni di sognare le distese sabbiose del grande Herg Orientale, le larghe e profonde gole rocciose degli hued graffiati dal vento feroce del deserto, gli orizzonti di dune infiniti e le grandi valli maestose nel loro silenzio eterno e assordante dove navigavo per giorni e giorni quasi in volo, quasi in sogno.

I popoli arabi e la cultura islamica mi apparivano in due forme molto distinte: quella gesticolante e fanatica, a volte attaccabrighe delle principali città turistiche e quella pacata e nobile dei popoli del deserto.  Gli uomini blu delle dune con cui tante volte ho condiviso barrette energetiche e brick à l’œuf, con tè verde alla menta, coi pinoli, in piccoli bicchieri dal grosso spessore, resi opachi dall’uso.   Ci raccontavamo lunghe storie con quegli uomini, a sguardi e gesti che non parlavo una parola d’arabo. Ma ci si capiva eccome.

Quella volta dell’88 la nave aveva rollato parecchio ed io e Graziano, mio compagno di avventura, sbarcando sul porto di Tunisi controllammo che il nostro bel colorito verdognolo non aumentasse troppo.

Con molta diplomazia riuscimmo ad uscire dalla dogana tra i primi ed alle 18 eravamo già fuori Tunisi. Il sole al tramonto tingeva di rosso le montagne che sfilavano veloci ad est, e gustavamo felici gli odori nuovi che il vento ci portava, tutt’altro che freddo per essere gennaio. Finalmente di nuovo in Africa !

L’intenzione era di raggiungere assolutamente il confine dopo Nefta prima di mezzanotte per riuscire a sdoganare e dormire già in Algeria, ad El Ued, dove la mattina successiva era prevista la partenza della prima speciale della PARIGI- DAKAR, e poi raggiungere Tamanrasset, nel centro del Sahara, dove avevamo appuntamento con alcuni amici partiti prima di noi. Il doganiere Algerino, senza scomporsi per nulla di fronte ai nostri visi sconvolti, (la temperatura era scesa sensibilmente, ed il nostro colore verdastro, ricordo dell’Habib, aveva ormai degenerato in un blu a chiazze chiare ) timbrò i passaporti alle 23,40. Avevamo fatto 580 Km. di Tunisia in meno di 6 ore, e di notte.

E tutto sommato non era andata male; eravamo già in Algeria, e a due passi dai nostri amici Dakariani, quelli che a differenza di noi, erano riusciti a reperire sufficienti sponsor per finanziare il rally. Montato il tendino, addormentarci non fu un grosso problema.

Arrivando ad El Ued lo scenario appariva apocalittico. Nel bel mezzo del deserto , in un mare di dune impressionante, centinaia di auto e camion dai colori vivissimi brulicavano in tutte le direzioni, provando motori e gomme prima della partenza. Girando lo sguardo tutt’intorno, fin sulle dune più alte e più lontano ancora si poteva vedere ogni tipo di veicolo, e di pubblicità. Le più grandi multinazionali del tabacco, dei liquori e degli Hi-Fi erano lì, coloratissimi, a far bella mostra di se’, nel mezzo del deserto.

E poi le telecamere, e la stampa, e gli elicotteri. E i curiosi, e noi. Nel giro di due ore tutto questo sarebbe sparito e solo il deserto sarebbe rimasto.

Le moto erano partite prestissimo che la tappa era prevista molto dura, e vedemmo la partenza delle auto; cinque alla volta, in linea. Il nero buggie di Auriol schizzò via nella sabbia come un razzo, lasciando quasi al palo la Peugeot di Vatanen. Alla prima curva dopo un rettilineo ormai devastato di un paio di km., aveva già un centinaio di metri di vantaggio. Non avremmo mai immaginato che non sarebbe neppure arrivato alla fine di quella tappa, che fu subito chiaro, sarebbe stata tremenda; in pieno deserto, davanti 300 km. di dune di sabbia finissima. Sabine doveva sfoltire i suoi cavalieri.

Era la stessa sabbia, le stesse dune che due mesi prima mi avevano intrappolato, come altri 60 concorrenti, con la moto piantata fino al serbatoio, nella seconda maledetta tappa del 4° Rally de Tunisine, quasi parallela a questa, solo una cinquantina di km. più a est. La sera al bivacco arrivammo solo in 14. Gli organizzatori e l’Esercito trovarono nei giorni successivi più di 20 concorrenti dispersi ancora vivi, ma per gli ultimi tre non ci fu più niente da fare. Fu l’ultimo rally organizzato senza la “balise” obbligatoria.

Dopo Assi-Messaoud e Bordji omar Driss, la carovana dei nostri amici avrebbe puntato e fatto tappa a Tamanrasset. E lì, sotto le montagne nere dell’Assekrem decidemmo di attendere il passaggio del rally, o almeno i superstiti di quella tappa feroce. Chi ha potuto vedere la mitica carta Michelin 953, avrà notato che la strada che da Ouargla porta a El Golea, compie quasi un angolo retto verso ovest per raggiungere Gardaia, per poi ridiscendere verso sud. C’è però tracciata una pista che collega direttamente Ouargla con El Golea, per altro con la scritta “ piste interdit ”… ma noi, non avendo nessuna voglia di fare ancora dell’asfalto decidemmo di cercarla e prendere quella.  Ma dopo un’ora buona di tentativi cercando in tutte le direzioni tra canaloni e dune, di quella pista nessuna traccia. A questo punto non restava che tornare indietro e ritrovare e seguire l’asfalto.

E invece non ando’ cosi’.

Ora, secondo voi, che cos’è la razionalità ? E lo spirito di avventura ? E quanto può l’uno essere influenzato dall’altro? E quanti altri conflitti possono scatenarsi nella mente di un individuo apparentemente sano di fronte ad una situazione come questa? Morale; davanti a noi l’altopiano desertico finiva, e fino all’orizzonte era un susseguirsi di canaloni e crepacci molto ripidi, al limite della praticabilità; abbiamo fermato le moto, fatto il cap puntando l’orizzonte con la bussola e ci siamo infilati decisi nel brodo caldo di sabbia e sassi rossi , guidando in piedi come due trialisti con gli zaini in spalla e davanti, a circa 400 km., El Golea.

I canaloni rocciosi finirono quasi subito, per lasciare il passo a catene interminabili di dune molli, che con i nostri zaini e le scorte d’acqua e benzina era sconsigliabile attraversare, bisognava aggirarle rifacendo il cap ogni volta. Graziano con la sua TT era un abile ed esperto motociclista, ma era la prima volta che “provava” l’Africa e con lui, di bussola, neanche parlarne.

Guidammo con molta prudenza tutta la giornata senza vedere nessun segno di vita in un paesaggio lunare e verso sera convinti di essere a meno di un’ora dall’oasi continuammo, usando la prima grossa stella visibile come punto di riferimento, e rifacendo il cap ogni mezz’ora. Quando era ormai completamente buio da un pezzo, voltandomi quasi per caso, mi sono accorto di essere solo. Graziano non c’era più. E di tracce con quel buio, neanche a pensarci.

Da quanto tempo si era fermato? 10 minuti? 20 km.? ed in che direzione ? e nel caso fosse riuscito a partire, in che direzione sarebbe andato lui, senza bussola, senza nessun punto di riferimento?

La situazione mi apparve in un attimo in tutta la sua drammaticità. Raggiunta la duna più alta, iniziai a ruotare il faro della mia Honda R in tutte le direzioni nella speranza di essere visto, e sentivo l’angoscia che mi stava prendendo. E di colpo a chiedermi perché l’avevo fatto, perché non avevo proseguito per l’asfalto, perché mi ero andato a ficcare in quel guaio. Dopo un quarto d’ora durato almeno 6 mesi, all’orizzonte, lontano il faro della Yamaha apparve e poi scomparve fioco, arrancando tra le dune e nel buio gia’ procedendo in un’altra direzione. Ma mi vide.

Montammo subito il tendino, decidendo di proseguire il giorno dopo. La centralina del TT aveva grossi problemi e con questo pensiero, tra gli altri, (se non fossimo riusciti a ripararla era meglio abbandonarla nel deserto e proseguire in due sulla mia moto, o tentare di trainarla? e in tutti e due i casi, la mia 600R avrebbe resistito allo sforzo? ) … in un silenzio spettrale ed urlante a 5 gradi sotto zero cercammo, questa volta meno facilmente di addormentarci.

Che cos’è che porta un individuo apparentemente sano, senza grossi problemi esistenziali, con una situazione familiare sufficientemente serena, a cacciarsi in una situazione simile ? Il dannatissimo spirito di avventura ? La fantasia e il pensiero volarono veloci. I grandi navigatori, Cristoforo Colombo, finita l’acqua ed i viveri, in mezzo all’oceano, non potendo più ormai tornare indietro, cosa provava? (anche noi non avevamo sufficiente benzina per tornare al punto di partenza ). Ma lui in fin dei conti doveva cercare le Indie, comandato dal Re di Spagna. E Armstrong e Aldrin, i primi astronauti sbarcati sulla Luna, quando erano là, sdraiati dentro al modulo lunare che “avrebbe“ dovuto partire staccandosi dalla Luna (ma non l’avevano mai fatto prima, era la prima volta, una nuova esperienza; il minimo inconveniente, la più piccola valutazione errata avrebbe compromesso tutto)… per congiungersi alla navetta orbitante di Collins (trovarla ed aggangiarsi) per poi ripartire verso la Terra, sulla quale poi atterrare in modo accettabile……ma loro, cosa provavano ? Quanto può essere più complessa una navetta spaziale della centralina di una TT? E l’angoscia può essere direttamente proporzionale alla complessità tecnologica ed alla distanza?

Sì, in effetti non ci fu facile dormire e diciamo la verità, nemmeno trovare delle risposte.

La mattina ripartendo, constatammo che la centralina della moto di Graziano andava in tilt quando si scaldava, così procedemmo a tappe di 40-50 km. intervallate a soste forzate durante le quali procedevamo a sostituire il collegamento elettrico con un’altra centralina di scorta, rivelatasi anche lei carente, attaccata col nastro americano al serbatoio. Procedemmo cosi’ per tutta la mattina e nel pomeriggio le dune divennero sempre piu’ fitte.

Quando il nastro d’asfalto ci apparve improvviso era ormai sera e le nostre scorte di benzina ormai finite.

Raggiungemmo in fretta il distributore di benzina segnato sulla carta e, quando si dice la sorte, appena fatto il pieno, nel ripartire si ruppe il pedale della messa in moto della mia 600R. Solo chi ne ha avuta una può capire come sulla sabbia, senza messa in moto, sia assolutamente impossibile accenderla. Ma eravamo arrivati all’asfalto, e giocando abilmente di alzavalvola l’accensione era possibile a spinta.

L’appuntamento con Tamanrasset e le nere cime dell’Assekrem, e con la Dakar, era ormai sfumato e tra incredibili riflessioni che avrebbero pesantemente, e forse positivamente condizionato le nostre avventure future, ritornammo verso la Tunisia, sempre a piccole tappe, ma questa volta sull’asfalto.


Commenti
Sono stati scritti 2 commenti sin'ora »
  1. avatarcarmengueye - 2 aprile 2011

    Non so nulla di traversate in moto, ma ammiro l’audacia…soprattutto in questo contesto.

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  2. avatarAndrea Cotti - 3 settembre 2013

    Le tappe dell’ultima Parigi Dakar in Africa. (grazie a Roberto Musi :mrgreen: )

     

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