Spallata alla Gerontocrazia

Geronzi e Della ValleAlla fine mister Tod’s ha fatto le scarpe anche al presidente della Generali!
Detta così sembra una battuta, se non fosse che invece è un avvenimento di peso. Finalmente in Italia è accaduto qualcosa, e per chi ha occhio per vedere il persistente gattopardismo dietro i mutamenti che ci rifilano da  quando Andreotti era giovane, tutto questo è una svolta.
Le prime avvisaglie della battaglia in corso si sono avute già qualche mese fa, con le schermaglie tra mister Tod’s, al secolo Diego Della Valle, e il banchiere capitolino, Cesare Geronzi, e lo scontro si è concluso in questi giorni con le dimissioni di Geronzi da presidente delle Generali, che a catena ha lasciato le poltrone nei patti di Mediobanca, Pirelli ed Rcs.
Una svolta epocale l’ha definita qualcuno, un crollo di regime qualcun altro, in ogni caso è solo il primo passo di una strada ancora lunga, ma è un primo passo molto importante.

La posizione di Geronzi si è fatta molto difficile negli ultimi tempi, e non solo perché in maggio è attesa la sentenza di primo grado sui rapporti di Capitalia, quando era da lui guidata, con il gruppo Cirio, dove il PM ha chiesto per il banchiere 8 anni, e nemmeno per il suo coinvolgimento in uno dei processi per il crac Parmalat. In realtà dipende dall’approccio del finanziere capitolino nei confronti delle aziende delle quali prende le redini.
Il metodo è sempre lo stesso, fin dai tempi della Cassa di Risparmio di Roma, passando per la Banca di Roma, poi per Capitalia, Mediobanca ed infine Generali, Geronzi ha sempre incarnato il punto di equilibrio del potere, fungendo da garante dello status quo nell’insegna della continuità. Con la Dc quando c’era Andreotti, con Berlusconi quando è venuta Forza Italia. Del resto fu Geronzi il regista della ristrutturazione del mostruoso debito delle aziende del Cavaliere alla vigilia della discesa in campo, e da lì la strategia economica, che ha imbarcato tutti dispensando denari, incroci, nomine e clientele.
E le aziende delle quali era a capo hanno fatto le spese di un sistema di potere che intreccia pericolosamente politica e finanza, con prestiti elargiti per “ragioni di sistema” che hanno sempre avuto la pessima caratteristica di “pesare” eccessivamente sui conti delle aziende coinvolte per la “ragion di governo”. Forse un piccolo prezzo per garantire la continuità, il gattopardismo, ma un pessimo affare per le aziende che si ritrovavano a dover fare i conti con gli azionisti, quelli che i soldi ce li mettono, e con il mercato, sul quale perdevano capacità di concorrenza in un mondo sempre più globalizzato. Oggi, specialmente nell’ambito finanziario, non si può più essere chiusi a riccio nel proprio paese, bisogna confrontarsi con realtà estere e si deve necessariamente arrivare attrezzati, ma per fare ciò i conti devono essere a posto. Capitalia, tanto per fare un esempio, arrivò ad avere il 36% dei crediti in sofferenza, cioè a rischio.

E poi il banchiere capitolino ha avuto sempre la pessima idea di segare il ramo sul quale sedevano i suoi manager, come Matteo Arpe, l’enfant prodige della finanza italiana, che, chiamato a rimettere in sesto i conti disastrati di Capitalia, fu ben presto allontanato. Oppure con Profumo, dopo la fusione tra Capitalia ed Unicredit, quest’ultima all’epoca l’unica banca italiana in grado di confrontarsi alla pari con le realtà straniere, proprio perché si teneva lontana dalle beghe politiche interne. Dopo la cura Geronzi, Unicredit è stata fatta rientrare velocemente sulla rotta italiana al fine di utilizzarla per le solite operazioni di “sistema”.
Geronzi, quindi, incarna la facciata finanziaria del potere in auge al momento, e in tale veste fu salutato da un editoriale del Foglio di 2 anni fa, quando il Cavaliere aveva da poco trionfato alle elezioni. Il suo ruolo di snodo fondamentale della politica economica fu confermato ad una cena dall’immancabile Vespa, dove sedevano alla stesso tavolo Geronzi, il Premier, Gianni Letta e il segretario di Stato Vaticano.
All’epoca Geronzi era presidente di Mediobanca, il salotto buono della finanza italiana, nella quale portò la figlia maggiore del Cavaliere, a garantire l’alleanza che finalmente promuoveva il premier nelle stanze del potere economico, potendo così quest’ultimo digerire finalmente lo smacco del 1979 ad opera di Merzagora che, da presidente delle Generali, rifiutò l’ingresso di Berlusconi visto come troppo politicizzato.
Dalla tolda di Mediobanca il banchiere capitolino ha realizzato la regia delle maggiori operazioni di interesse per il patron di Mediaset, l’acquisizione di Mediolanum ad esempio, ma soprattutto era in procinto di portare a compimento la fusione tra Mediobanca e Generali, al fine di far diventare anche il Leone di Trieste il braccio armato della politica economica del governo, grazie ad un attivo di 470 miliardi di euro, prima azienda italiana in tale senso.
L’alleato di Geronzi in questa impresa era il francese Bolloré, vicepresidente, il quale prese le posizioni di Geronzi al momento di defenestrare il vecchio presidente della Generali, Barnheim, nel 2010.
Bolloré fu protagonista anche dell’attacco in Borsa a Mediobanca, condotto nel 2003 insieme a Tarak Ben Ammar, socio del Cavaliere, utilizzando l’Unicredit di Profumo come clava, ed imponendo al presidente di Mediobanca le dimissioni. Maranghi, l’erede di Cuccia, se ne andò lasciando la poltrona proprio a Geronzi, con il beneplacito del governatore di BankItalia Fazio. Profumo fu poi costretto a mollare la sua creazione, Unicredit, come nella migliore tradizione geronziana, lasciando campo libero al banchiere capitolino, che si è reso protagonista, così, degli accordi finanziari con la Libia di Gheddafi, accordi che alla fine ci sono costati parecchio, in tutti i sensi.
Poi Geronzi è sceso in campo ancora una volta per il salvataggio dell’amico Ligresti, anche questi legato a doppio filo col Premier, e miracolato più volte dai crediti facili, ma oggi oberato dai debiti eccessivi della Fondiaria-Sai, ennesima azienda portata allo sfascio.

La carriera del banchiere capitolino, iniziata nel 1961 in Banca d’Italia è costellata di queste operazioni, prendere un’azienda ed utilizzarla per operazioni di “sistema”, cioè finanziamenti spesso rischiosi, e non raramente mai tornati indietro, per coloro che finiscono per appoggiare il sistema politico, dal quale Geronzi poi ottiene credito ed appoggi, in un continuo rinverdirsi di favori tali da mantenere lo status quo il più a lungo possibile, scaricando sulle spalle dei cittadini il costo del sistema medesimo. Quando l’azienda in questione non è più salvabile in alcun modo, la si scarica, casomai fondendola con altra più liquida, e si ricomincia il gioco.
Il risultato è l’ingessamento di un intero sistema politico ed economico-finanziario, un sistema lobbistico che è sostanzialmente tenuto in vita artificialmente, e che peggiora di anno in anno la competitività delle aziende, rendendosi queste assolutamente incapaci di reggere il confronto con realtà internazionali. Da cui l’esigenza di applicare un vastissimo “protezionismo” economico e finanziario a favore delle aziende in questione, scaricandone in ultima analisi l’intero costo sui cittadini.

Ad un certo punto, però, qualcosa non ha funzionato più come prima, e qualcuno, di quegli imprenditori che i soldi li mettono di tasca propria, ha deciso che questo sistema, dove chi comanda lo fa solo per appoggi politici e rischia i soldi degli altri, non andava più bene.
E quindi da più parti si sono levate voci in contrasto con questo modo di utilizzare le aziende. È difficile dire come è cominciato, ma di sicuro mister Tod’s, il collante dell’operazione, a gennaio ci ha messo la faccia, poi lo scontro con l’AD della Generali, quando Bolloré ne ha chiesto la testa insinuando che il bilancio del Leone fosse scorretto. L’AD, Perissinotto, ha chiesto al presidente Geronzi un atto formale di intervento sulla disputa, ma quell’atto non è mai arrivato. Il banchiere capitolino ha in tal modo fatto capire da che parte stava, quella che aveva bisogno di una mutazione genetica delle Generali, che doveva diventare il braccio economico del governo.
L’AD, quella sera stessa, vide Tremonti. E qualcosa accadde!

Formalmente la posizione del ministro del Tesoro è stata la classica del laissez faire, ma i contatti frequenti tra il ministro e il vicepresidente Nagel, un altro che era stato “segato” in passato da Geronzi, fanno comprendere che l’interessamento di Tremonti fosse decisamente più forte di quanto apparisse.
Dopo qualche giorno l’attacco finale. A Geronzi è stata presentata una lettera nella quale ben 12 firme, su 17 consiglieri, lo scaricavano. Non è rimasto altro che le dimissioni, tra l’altro dorate, visto i 16 milioni di euro di liquidazione per poco più di un anno in Generali.
Il comunicato ufficiale delle Generali è un compendio di equilibrismo ed ipocrisia: “Il presidente, a seguito della situazione venutasi a creare per contrasti che non lo vedono partecipe nella Generali, ha ritenuto, dopo pacata riflessione, nel superiore interesse della compagnia, di rassegnare, oggi, le dimissioni dalla carica ricoperta. Il cda ha preso atto con rammarico della sua decisione e lo ringrazia per l’opera svolta, con dedizione e senso di istituto, sin dall’assunzione dell’incarico e apprezza la particolare sensibilità e l’alto senso di responsabilità dimostrati nel compiere questo gesto che mira a incidere favorevolmente sul clima aziendale”.

L’uscita di scena di Geronzi fa volare in borsa sia il titolo Generali che quello Mediobanca, quest’ultima, primo azionista di riferimento, ha inciso parecchio nelle decisioni interne del Leone di Trieste, al punto che il prossimo presidente dovrebbe essere Galateri, uomo ben visto a piazzetta Cuccia.
Gli azionisti prendono bene le dimissioni perché finalmente l’azienda potrà chiudere i dissidi sulla governance che hanno frenato i rendimenti del gruppo. Del resto Geronzi non ha mai avuto un buon feeling con i mercati (basti ricordare il crollo verticale di Mediobanca in borsa quando ne era presidente), e il banchiere romano aveva pesato molto sui conti del gruppo. All’interno rimane ancora Bolloré, ma ormai è praticamente da solo.

Adesso la battaglia si sposterà in Mediobanca, dove Bolloré e i francesi sono azionisti di peso, e con loro Geronzi e i berlusconiani, prima fra tutti Marina Berlusconi, poi Ennio Doris, Marco Tronchetti Provera, fuori causa per debiti Ligresti. Vedremo se il ministro del Tesoro avrà anche lì le armi giuste per fare da regista dietro le quinte. Le fondazioni bancarie, guidate dalla Crt di Palenzona, hanno i loro problemi, di liquidità soprattutto, e non è detto che si trovino i soldi per ricacciare i francesi oltre le Alpi, ma il gioco vale la candela, conquistare piazzetta Cuccia vorrebbe dire mettere nelle mani del Nord l’intera galassia economico-finanziaria. E, soprattutto, affrancarla dalla politica.
E in questo quadro il Cavaliere vede il suo sistema di potere intaccato pesantemente, molto di più paradossalmente di tutto ciò che è accaduto negli ultimi mesi, dai processi alle manifestazioni di piazza. E questo proprio in vista dei nuovi assetti di potere da ridiscutere nel 2013. Teme sia in atto una manovra per ridurre il suo peso nella politica e nella finanza, ed infatti l’appoggio contro Geronzi da parte del ministro del Tesoro si può vedere sicuramente come un colpo basso a Gianni Letta, il grande cerimoniere del rito geronziano, colui il quale teneva le fila tra il Premier, Geronzi e il Vaticano, una mossa che acuisce la distanza tra ministro e Premier.

Tutto ciò è un bene? O è un male? L’uscita di scena di Geronzi è solo il primo passo di un processo che potrebbe essere molto lungo, e che potrebbe anche non portare a nulla di concreto. Insomma, è presto per dire se tutto ciò è qualcosa di positivo o negativo, e se i “giovani” che stanno sgomitando siano diversi dai loro predecessori, se è caduta davvero la gerontocrazia, malattia senile del clientelismo. Ma una cosa è certa, per la prima volta in Italia, dall’epoca di Andreotti, oggi finalmente nel nostro paese è successo qualcosa, qualcosa è mutato davvero, un equilibrio si è rotto, si è insinuata una crepa nel muro. E, comunque, vada, questa è davvero una svolta epocale!


Commenti
Sono stati scritti 3 commenti sin'ora »
  1. avatarAndrez - 8 aprile 2011

    Su una cosa non ci sono dubbi: l’utilizzatore finale l’ha presa malissimo.

    Sembra siano riusciti a fare tutto a sua insaputa, tenendo all’oscuro pure la figlia pur presente in alcuni Consigli d’Amministrazione.

    Geronzi e’ l’uomo che salva berlusconi fin dal 1994:

    Grazie al rapporto personale fra Ciarrapico e Berlusconi, la penetrazione su Milano si è completata con la nascita di un rapporto d’affari Fininvest-Banca di Roma. Nella fase precedente la quotazione di Mediaset (1996), la Fininvest è stata sostenuta dai crediti di Geronzi quando nessuna banca credeva più nell’indebitatissima holding del Biscione.

    Nel 1992 il gruppo Fininvest controlla 168 società (di cui 44 all’estero). L’utile netto è di circa 21 miliardi; l’indebitamento creditizio supera i 3.400 miliardi; i debiti totali ammontano ad oltre 6.000 miliardi. Il patrimonio netto è di 1.200 miliardi.
    Nel 1993 la Fininvest risulta essere la seconda impresa italiana per indebitamento: in base ai bilanci 1992, Mediobanca calcola che Fininvest ha debiti per 3,4 volte il capitale

    Ed e’ con terrore che ora il nano guarda all’ombra di Montezemolo che aleggia sinistra sul complotto, attuato sembra pure per i finiani … :mrgreen:

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  2. avatarcarmengueye - 9 aprile 2011

    Chissà perché d’acchitto mi viene in mente un commento di tempo fa, letto non nricordo dove, in cui, in sostanza, si diceva che i vecchi padrini vengono fatti fuori quando non contano più niente. 

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  3. avatarBlog di Andrez » Blog Archive » La Grecia piange l’Italia non ride - 13 maggio 2011

    […] 25%. Addirittura i francesi sono anche dentro il salotto buono di Mediobanca, dove però i rapporti sono sempre tesi proprio perché lì dentro ci sono in ballo gli interessi del […]

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