Siena Federico partigiano

Siena Federico  di Carlo D’Adamo

1. Federico Siena era sordomuto, ma da ragazzo aveva imparato in un istituto a leggere le labbra e ad articolare qualche suono. Era molto legato al fratello maggiore, Antonio, con cui usciva; insieme frequentavano gli ambienti antifascisti di Concordia e San Possidonio. Dopo l’Otto Settembre il fratello maturò la decisione di andare in montagna per unirsi ai partigiani.

Un giorno di gennaio del 1945 Federico, invece di andare come sempre in bicicletta a Concordia, dove lavorava come aiutante da un sarto, prese la bicicletta per andare anche lui in montagna, a raggiungere il fratello; arrivò nella zona di Montefiorino e chiese di poter restare là con i partigiani.

Lo misero in cucina a preparare il rancio, e soltanto in occasione di scontri ravvicinati con i tedeschi lo utilizzarono come combattente. Nei momenti di relax, ricordava Loris Maggi, qualcuno si divertiva a fingere un attacco nemico e si gettava per terra, per fare uno scherzo a Federico che, ovviamente, non sentiva niente ma si gettava per terra imitando gli altri.

2. Una volta andato in pensione dopo aver fatto per tanti anni l’impiegato all’anagrafe di San Giovanni in Persiceto, Loris Maggi si mise a svolgere ricerche sui partigiani che quarant’anni prima avevano combattuto con lui a Montefiorino. Con molti era rimasto in contatto attraverso l’ANPI, di altri aveva notizie attraverso conoscenti comuni, ma di qualcuno aveva perso le tracce. Così si mise con pazienza a cercare tutti quelli che avevano condiviso con lui quel momento particolarmente importante della nostra storia. Tra i partigiani di Montefiorino Maggi ricordava anche Federico, un ragazzo sordomuto che si era presentato in montagna arrivando da solo in bicicletta, e che era stato accettato dopo molte esitazioni.

Maggi ricordava che Federico era di San Possidonio, e andò là per cercare le tracce del suo amico. “È nel ricovero di Persiceto”, gli dissero. Maggi rimase stupito, sia perché Federico, che lui aveva cercato dovunque, era proprio dove lui viveva e dove aveva lavorato per tutta la vita, a Persiceto, sia perché Federico era finito in un ricovero.

Bisogna sapere che allora a San Giovanni in Persiceto l’ospedale-ricovero era l’azienda più grande: c’erano dentro matti, orfani, poveri, pastori sardi, umanità di serie B o di serie C, con o senza problemi psichici, ma certo con problemi di integrazione e senza alcuna tutela sociale.

3. Bisogna sapere anche che, quando Maggi si mise sulle tracce di Federico, lavorava nell’azienda sanitaria la dottoressa Gabriella Boilini, sociologa, che con pazienza e non senza incontrare ostacoli di ogni tipo si dava da fare per ridare ai ricoverati la loro dignità, cercando di restituire alla famiglia di appartenenza chi poteva essere liberato, e di riportare almeno nel comune d’origine, in qualche struttura vicina a casa, chi veniva da lontano.

Perché Federico Siena era finito nel Padiglione 4, nel cosiddetto “reparto sudici”? chiedevo alla dottoressa Boilini nel 1986, cercando di ricostruire la storia del partigiano sordomuto.

Credo – rispondeva la dottoressa Boilini – per esigenze dovute alla organizzazione del servizio. Nel Padiglione 4 oltre al “reparto sudici” c’era anche il reparto aperto e l’infermeria. Magari poteva finire in quel reparto qualche paziente che non era in grado di spiegarsi…

Allora potrebbe succedere, ad esempio, anche ad un finlandese? – chiedevo io – di finire qui e di ritrovarsi nel “reparto sudici”?

La dottoressa Boilini rispondeva: Capitava anche ai sardi.

4. Tra i ricoverati molti erano i sardi: povera gente che parlava solo in sardo e che gli infermieri, che parlavano in bolognese, non capivano; per questo molti di loro finivano nel “reparto sudici”, dove la doccia settimanale veniva effettuata dal personale mettendo in fila i ricoverati nudi, e poi innaffiandoli con il tubo di gomma: una specie di lavaggio auto su esseri umani. Nei primi mesi del 1973, a quanto si legge dai documenti, i sardi ricoverati a Persiceto erano 163.

Ci volle la pazienza di Gabriella Boilini, che scriveva alle amministrazioni provinciali di Cagliari e Nuoro e ai sindaci di tanti comuni della Sardegna, per preparare le condizioni per un ritorno nei luoghi d’origine dei ricoverati.

Cagliari aveva le strutture ed inviò i propri operatori per prendere i ricoverati e riaccompagnarli in Sardegna. Il rientro avvenne tra il 1973 e il 1974. Rimasero così circa 50 pazienti della provincia di Nuoro, che assunse operatori privati che furono inviati a Persiceto per programmare insieme agli assistenti sociali persicetani le modalità del rientro.

La dottoressa Boilini e suor Clementina accompagnarono poi in nave, a più riprese, gli ultimi sardi che tornavano in patria. Il rientro si concluse nel marzo 1980.

5. Quando Loris Maggi andò a trovare  Federico Siena al ricovero,  lo trovò seduto sulla sua branda, con la mano sulla maniglia della valigia: qualcuno gli aveva rubato qualcosa, e lui stava sempre lì a proteggere i suoi pochi averi. Era completamente sdentato e ormai quasi del tutto calvo. Maggi cercò di rivolgergli la parola, ma Federico si vergognava e teneva la testa china. Solo dopo diverse visite Federico si aprì, cominciò ad uscire con Maggi ed espresse il desiderio di poter fare un viaggetto a San Possidonio, il suo paese d’origine. Dopo aver programmato il viaggio con l’assistente sociale, la signora Benedetti, Loris Maggi accompagnò a San Possidoniocon la sua auto Federico.

6. Appena giunti a San Possidonio, Federico si risvegliò dal suo torpore; mostrò a Maggi la foto del fratello partigiano caduto, in mezzo alle foto degli altri partigiani nel sacrario che allora era sul fianco della chiesa del paese, portò Maggi a vedere la casa nella quale era nato e dove aveva vissuto da piccolo, andò con Maggi al cral a prendere un caffè; fece capire in mille modi che gli sarebbe piaciuto tornare a vivere là.

Ci furono scambi di lettere e furono presi accordi tra l’assistente sociale e gli operatori di Concordia e San Possidonio, e fu trovata una sistemazione. Federico sarebbe stato ospitato in una casa per anziani dalla quale era libero di uscire quando voleva. Infatti riprese l’abitudine di frequentare il cral, di andare al cinema, di andare a spasso. Rientrava solo per mangiare e dormire.

Quando lo intervistai, nel 1986, era un vecchietto sereno e disarmante; accolse me e Maggi con gioia, ci mostrò il suo armadietto, con le sue poche cose tutte in ordine. Prima di uscire per andare al cral si pettinò con cura i tre capelli che aveva ancora.

Gli chiesi quanto tempo era rimasto nel Ricovero di San Giovanni in Persiceto, e lui mi rispose: “28 anni tre mesi e otto giorni”.                                                              

7. Loris Maggi nel frattempo è morto ed ha cessato di andare a trovare il suo amico. Io e Francesco Ganzaroli un giorno siamo andati fino a San Possidonio per vedere se Federico era ancora là nella casa per anziani, ed abbiamo scoperto che è morto anche lui da qualche anno.

Nel cimitero di San Possidonio riposa accanto alla madre e ai membri della sua famiglia; si è incaricata delle esequie la sorella minore, l’unica rimasta del suo gruppo famigliare.

A due metri dalla tomba di Federico Siena c’è un piccolo sacrario che ricorda i partigiani; tra i nomi presenti c’è anche quello di Antonio, il fratello maggiore di Federico.

Non un cenno a Federico nel sacrario, né un cenno al passato partigiano di Federico sulla sua lapide. Con la cancellazione del suo passato di partigiano, frutto di una sua scelta partecipata e consapevole, Federico ha subito da morto un’altra violenza, dopo quella, terribile, che ha subito da vivo. 

8. La struttura superstite dell’ex ricovero, chiamata negli anni Novanta “XXV Aprile”, con chiaro riferimento alla liberazione (reale e metaforica) di tante persone restituite alla libertà o a condizioni più dignitose di vita, adesso si chiama Villa Emilia: un nome che riprende il vecchio nome della casa, ma che fa pensare a una pensione sull’Adriatico, e fa immaginare che i pazienti siano piuttosto ospiti paganti che non cittadini con diritti.

Si chiama Villa Emilia, ma non è più la stessa cosa: il nuovo nome non permette più di risalire a quella storia che ha segnato tante vite, fuori e dentro il ricovero, e a quella battaglia di civiltà che portò alla fine del ricovero-ospizio-manicomio.

Aver cambiato il nome della struttura è operazione equivalente a quella di aver omesso il nome di Federico Siena dagli elenchi dei partigiani: significa semplicemente dimenticare il valore della memoria per la nostra storia, per la nostra identità, per i nostri valori.


Commenti
Sono stati scritti 2 commenti sin'ora »
  1. avatarFausto Cotti - 6 aprile 2014

    Bravo Carlo, un racconto importante che la gente deve conoscere.

    Non tutti sanno che dalla fine della guerra agli anni ’80 si è preferito dimenticare tutto. Nei nostri libri di scuola non si diceva che l’Italia aveva perso la guerra, che era fra i “cattivi”.  Si narrava il  ventennio fascista e della guerra semplicemente come un periodo storico di cui ricordare solo le date.  Nella morale comune i cattivi erano i tedeschi, ma si evitava di ricordare che erano nostri alleati.

    I nostri libri di scuola non descrivevano i  partigiani come eroi e nemmeno come  traditori o delinquenti. Semplicemente non se ne parlava. Come se tutti quei ragazzi che si fecero torturare, impiccare e trucidare per darci la libertà, non fossero mai esistiti.

    Negli ultimi venti anni si è fatto di peggio. Visto che le voci di coloro che vogliono a tutti i costi ricordare la verità si sono fatte sentire sempre di più, si è cercato di stravolgere la storia raccontando frottole volendo mettere sullo stesso piano i morti partigiani con quelli repubblichini definendoli “fratelli di una guerra civile”.

    Ma noi tutti sappiamo che non ci fu nessuna guerra civile ma solo una guerra di liberazione. 

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  2. avatarAndrea Cotti - 6 aprile 2014
     

    Cristina Gardosi  Approfitto per salutare il mio prof di italiano, che di sicuro non sa quali e quante radici ha messo, in me. Ciao Prof.

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