Pomigliano, la Cina e la globalizzazione

Sciopero in CinaTiene banco su tutti i media il braccio di ferro tra la Fiat e i lavoratori di Pomigliano. Marchionne ha anche sostenuto che è essenziale accettare la proposta dell’azienda, a meno che non si voglia “distruggere” l’industria italiana. Il punto è abbastanza chiaro, c’è la crisi (quindi non era vero quando ci dicevano che non c’era o era già alle spalle) e tutti dobbiamo fare sacrifici. La domanda alla quale non si trova ancora una risposta è perché i sacrifici sono troppo spesso a senso unico.
Guardiamo l’accordo proposto ai lavoratori di Pomigliano, un caso che viene presentato come unico in quanto sarebbe il primo di una azienda che fa rientrare in Italia un settore, quindi, si dice, è necessario andare incontro all’azienda che fa, lei, dei sacrifici. Poiché all’estero l’azienda trova lavoratori a salari più bassi, perché l’azienda possa far rientrare quella produzione in Italia è necessario che si livellino ulteriormente i salari in Italia.
Non ho mai creduto né a miracoli, né alle fatine, se l’azienda riporta quel business in Italia vuol dire che le cose fuori dall’Italia vanno male, non c’è altro motivo.

Tornando all’accordo di Pomigliano, gli esperti sono molto cauti nel valutarlo, ma di fatto appare prima facie incompatibile con i principi fondamentali della Costituzione. L’accordo, già firmato da alcuni sindacati, ha delle forti criticità in merito alla tutela e alla sicurezza dei lavoratori, innanzitutto per quanto riguarda la riduzione delle pause di lavoro che, come dimostrato da vari studi, comporterà un maggiore verificarsi di infortuni: quando si riducono le pause il livello di attenzione diminuisce e la sicurezza anche.
L’altro punto critico riguarda l’impossibilità di portare avanti azioni collettive di protesta, di sciopero o assemblee, che altrimenti potrebbero portare ad una risoluzione dell’accordo da parte dell’azienda. Stiamo parlando di quel diritto di sciopero riconosciuto a livello costituzionale, ma anche dalla Corte europea di giustizia, come diritto sociale fondamentale non sindacabile.
In sintesi, anche se con una certa ovvia cautela, gli esperti sostengono che quell’accordo, in quanto elimina garanzie costituzionali, potrebbe essere annullato se portato dinanzi ad un giudice.
Il punto fondamentale, però, è che si negoziano diritti costituzionali a mezzo di un semplice contratto privato, cosa non ammissibile.

Ma perché la Fiat riporterebbe in Italia una catena produttiva? Sinceramente non credo proprio che sia per magnanimità, probabilmente è solo perché le condizioni di lavoro all’estero stanno mutando, anche se qui in Italia non ce ne accorgiamo (a livello di informazione ormai siamo tagliati fuori dal resto del mondo, se ci riferiamo ai giornali e alle televisioni), e quindi parrebbe che, addirittura, le condizioni migliori per le aziende, dopo anni di pressioni per ridurre le tutele e i diritti dei lavoratori, con la scusa delle crisi, adesso si trovino in Italia. In particolare, a differenza di quanto accade in altri paesi (uno per tutti: la Cina, anche se può sembrare difficile da credere!), in Italia il governo pare appoggiare le aziende e non tutelare i lavoratori. Ecco perché la Fiat rientra.

Una analisi delle condizioni lavorative di altri paesi è improponibile, anche sinceramente difficile, ma forse potrebbe essere utile qualche accenno ad una realtà che è sempre stata additata come tra le peggiori, cioè la Cina, presa generalmente ad esempio come paese dove i lavoratori sono trattati come schiavi.
In realtà le cose non sono più così, e da tempo, la Cina ha dovuto fare passi in avanti in pochi anni, in un paio di generazioni i cinesi sono passati dalla vita in caverne (letteralmente) a case con condizionatori ed auto. Questo ha provocato difficoltà di molti tipi, principalmente a livello di inquinamento, visto che si è dovuto creare una rete di produzione energetica in grado di gestire tutta l’industria nascente, e si è partiti dalle industrie più inquinanti. Ma anche nel campo della tutela dei lavoratori si è dovuto partire da zero, o quasi. Però anche qui i passi in avanti si fanno, ed anche velocemente.
Stiamo parlando di un miliardo di persone che in poche generazioni ha gestito (e subito) i cambiamenti che noi occidentali abbiamo gestito in centinaia di anni. Sarebbe stato impossibile non avere delle disfunzioni. Lungi da me l’idea di difendere un paese che si presenta in realtà come un regime autoritario nel quale la libertà è spesso minacciata e la rete internet è costantemente controllata, ma è un paese esemplificativo di ciò che sta accadendo nel resto del mondo, un paese che ci spiega che la globalizzazione sta raggiungendo un punto di svolta.
Se fino ad ora era molto semplice per un azienda chiudere in patria per spostarsi all’estero, casomai proprio in Cina, ed ottenere delle condizioni di favore, adesso ciò non rende più come prima. Per una azienda chiudere una produzione in Italia, tanto per fare un esempio, è lavorativamente indifferente. Utilizzerà 100 lavoratori all’estero come li utilizzava in Italia (senza interessarsi minimamente delle 100 famiglie buttate per strada), ma all’estero, complici i salari più bassi, potrà applicare un ricarico maggiore ed ottenere margini superiori, concentrando tutta la spesa sulla pubblicità del marchio.
Così si sono create le famigerate zone franche che Naomi Klein in No logo descrive mirabilmente: India, Cina, Sri Lanka, Filippine, Taiwan, Corea del Sud, Vietnam, Messico, dove lavoravano fino a 27 milioni di lavoratori, con giornate fino a 14 ore di lavoro.
Ma oggi la delocalizzazione all’estero comincia a mostrare l’altra faccia della medaglia, cioè la perdita di qualità dei prodotti, con evidenti ricadute sulla credibilità dell’azienda (e del marchio), ma, di contro, anche lo spettro del vecchio Marx, che ci ricorda una verità che molti sembravano aver dimenticato, cioè non basta produrre, si deve anche avere un mercato che assorba i prodotti.
Se si delocalizza un’azienda, alla fine si deve delocalizzare anche il mercato di riferimento, e ciò alla lunga comporta il medesimo problema che porta alla delocalizzazione dell’azienda.
I punti sono due quindi, prima di tutto la manodopera che deve essere qualificata per determinati prodotti, altrimenti la qualità cade. In tal senso proprio in Cina si vedono i primi effetti, aziende che non delocalizzano più, se non una piccola parte della produzione, perché la manodopera estera non è sufficientemente qualificata.
E poi il problema del mercato. Se si delocalizza tutta l’industria di un paese, quel mercato muore, e non potrà più assorbire alcuna produzione, e ciò alla lunga danneggia irrimediabilmente l’azienda, specialmente se si tratta di aziende italiane che, purtroppo, sono ben poco abituate a competere in regimi di concorrenza avendo sempre vissuto in un paese dove il governo ha badato a proteggere sempre i capitali, le aziende, le famiglie che gestivano le aziende, e meno i lavoratori.

E così in Cina si comincia a vedere la Foxxcon che si piega ai voleri degli operai cinesi, e non delocalizza in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile, e per produrre gli iPod di qualità non basta un operaio qualsiasi. E lo stesso accade alla Honda, bloccata da un ondata di scioperi, quegli stessi scioperi che in Italia vogliono abolire, in Cina diventano diritto dei lavoratori in base ad una nuova legislazione introdotta tra il 2007 e il 2008 che garantisce contrattazione collettiva, minimi salariali e buonuscita. Nel corso del 2010 i salari della zona industriale del fiume delle Perle sono raddoppiati, e dal 2008 i tribunali processano le aziende straniere per difendere i diritti dei lavoratori.
Stranamente i giornali di mezzo mondo celebrano la vincita della classe operaia cinese, credendo sia da vedere come un indebolimento del potere centrale. Niente di più falso, è stato il governo centrale che ha voluto la nuova legislazione e adesso pretende che gli stranieri la applichino, pretende di fare quel passo ulteriore che noi occidentali adesso ci stiamo rimangiando, cioè pretende una tutela dei lavoratori. In Cina accade che il governo sia più forte delle aziende mentre in Europa, almeno una parte, qualche governo si sdraia al passaggio delle aziende.

Questo è il quadro che si sta preparando in Cina, e le aziende straniere, delle quali tutto si può dire tranne che siano rette da individui non in grado di comprendere le dinamiche sociali, si stanno rendendo conto che l’aria all’estero si fa più pesante, e la globalizzazione, per varie ragioni, non è più quel vantaggio che si è rivelata per anni. E quindi preparano il ritorno nei loro paesi di origine, se proprio non sono disposte a concedere le nuove tutele ai lavoratori stranieri.
Il mercato cinese non è più disponibile come una volta, però rimane la possibilità di delocalizzare verso i paesi dell’est europeo (come la Polonia dove minaccia di andare la Fiat), peccato che in quelle zone si trovano si bassi salari (350 euro circa), ma non esiste un mercato in grado di assorbire la produzione, a differenza della Cina. Una produzione non può esistere senza un mercato che la assorba, e questo è un dato di fatto imprescindibile, il punto che alla fine è venuto a galla. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva alla classe operaia che aiutava a produrle, se togliamo la fabbrica (e il salario) agli operai italiani e paghiamo 350 euro agli svolacchi, chi comprerà la moderna utilitaria ? Nessuno.
E parliamo di una Fiat che sostanzialmente non è in grado di competere con le altre grandi aziende sui mercati esteri, di un Italia che non è mai stata una grande esportatrice, e di una classe media ed operaia che sono più povere di 20 anni fa.

Forse è questo il motivo per cui la Fiat torna in patria, ma, facendosi forza della scarsissima conoscenza della realtà estera, e cinese in particolare, pone il suo aut aut: “torno se le condizioni in Italia si livellano verso il basso”.
Se dovesse passare questa idea, l’Italia potrebbe diventare la nuova Cina, territorio di caccia per le aziende spregiudicate che cercano i più bassi salari e le peggiori tutele per i lavoratori.
Forse ci si dovrebbe rendere conto, finalmente, che lo spazio per crescere c’è, ma bisogna crescere insieme, se l’azienda cresce mentre gli operai perdono salario e tutele, non si va da nessuna parte.

Nota: leggo sui giornali di oggi che un gruppo di operai polacchi della fabbrica di Tychy dichiara: “La Fiat gioca molto sporco con i lavoratori: chiedono agli operai italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. Chiediamo ai colleghi italiani di resistere, perché bisogna mostrare alla Fiat che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni”.


Commenti
Sono stati scritti 2 commenti sin'ora »
  1. avatarAndrez - 20 giugno 2010

    Se dovesse passare questa idea, l’Italia potrebbe diventare la nuova Cina, territorio di caccia per le aziende spregiudicate che cercano i più bassi salari e le peggiori tutele per i lavoratori.

    Potrebbe essere così in effetti,  ma siccome abbiamo Paese, Governo ed Istituzioni intossicate da mafie e caste partitiche, le aziende col piffero che verranno ad investire in Italy.

    La Fiat ha dichiarato che se gli operai italiani resistono torna in Polonia; è dunque comprensibile l’appello dei colleghi operai polacchi.

    Vediamo intanto di cosa stiamo parlando:  qui (in PDF) è possibile leggere i contenuti del Documento FIAT e gli effetti della sua eventuale  applicazione sui lavoratori.

    Di seguito la clausola che permette il licenziamento libero, contro lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione:

    Clausole integrative del contratto individuale di lavoro

    Le Parti convengono che le clausole del presente accordo integrano la regolamentazione dei contratti individuali di lavoro al cui interno sono da considerarsi correlate ed inscindibili, sicché la violazione da parte del singolo lavoratore di una di esse costituisce infrazione disciplinare di cui agli elenchi, secondo gradualità, degli articoli contrattuali relativi ai provvedimenti disciplinari conservativi e ai licenziamenti per mancanze e comporta il venir meno dell’efficacia nei suoi confronti delle altre clausole.”

    ________________________________


    – Statuto Fiom, art. 7 – Democrazia sindacale

    f) “È fatto espressamente divieto di sottoporre al voto tutto ciò che riguarda i diritti indisponibili delle lavoratrici e dei lavoratori.”

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  2. avatarBlog di Andrez » Blog Archive » Marchionne: Fiat meglio senza Italia - 25 ottobre 2010

    […] più volte trattato il problema della competizione dei Paesi emergenti come Cina e India che bloccherebbe […]

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