La liberazione di Rinaldo Veronesi

Persiceto, 14 settembre 1944.
Protagonisti del blitz: Bruno Corticelli (Marco), 20 anni, di Calderara; Antonio Marzocchi (Toni), 24 anni, di Persiceto; Vito Giatti (Taiadèla), 20 anni, di Calderara; Loredano Zucchelli (Boccaccio), 18 anni, di Bologna, operante ad Anzola; Clorindo Grassilli, 22 anni, di Bologna, operante ad Anzola.
Si tratta di liberare Rinaldo Veronesi (Giuseppe), 21 anni, ferito gravemente il 27 luglio a Calderara durante un’azione partigiana per mettere fuori uso una mietitrebbia e boicottare la requisizione del grano da parte dei tedeschi. Veronesi è ricoverato all’ospedale di Persiceto, ingessato e piantonato 24 ore su 24. Appena guarisce sarà fucilato.

Sono passate da poco le sei e mezzo di mattina. La Balilla si ferma cigolando davanti al portone dell’ospedale. Toni, Marco e Boccaccio scendono ed entrano di corsa; Clorindo si piazza all’angolo della strada per fare da palo, Taiadèla rimane al volante con il motore acceso.
Tutto deve svolgersi in pochi minuti, perché altrimenti la cosa non riesce. Basta che dalla caserma delle Camicie Nere, a cinquanta metri da lì, escano dei fascisti e diano un’occhiata dentro la Balilla (che al posto del sedile posteriore ha un pagliericcio e dietro il lunotto senza vetro ha una bella mitragliatrice), e tutto va a gambe all’aria.
Taiadèla è nervosissimo, preferirebbe entrare dentro con Toni, Marco e Boccaccio, piuttosto che stare lì ad aspettare, con il motore acceso e i secondi che sembrano ore.
Clorindo, con la destra sotto la giacchetta per tastare la Beretta nella fondina sotto l’ascella, staziona all’angolo del bar Bergamini di fronte all’ospedale e fa finta di essere interessato alla lettura di un cartellone, ma l’occhio vigile corre dall’imbocco della piazza alla Contrada del Ghiaccio, per controllare che non appaia nessuna divisa, nessun tedesco, nessun fascista, nessun curioso.
Per darsi un contegno si accende una sigaretta. Alle sei e tre quarti di mattina non è il massimo per i polmoni fumare una Macedonia senza filtro.

Toni e Marco salgono di corsa lo scalone dell’ospedale per andare nella corsia dov’è ricoverato Veronesi, mentre Boccaccio, facendo la faccia più cattiva che può, ficca la pistola sotto il naso del portiere: “Se gridi t’ammazzo”. Ci vuole proprio la sua faccia tosta per fare un’espressione da duro. Si vede lontano un chilometro che è poco più di un cinno, ma la sua Luger calibro 9 con i proiettili in canna ha lo stesso un’aria poco rassicurante. Il portiere prova a dire: “Che volete?”, ma Boccaccio replica: “Stai zitto e fermo”. Per fargli capire che non scherza contrae l’indice della destra sul grilletto, pronto a sparare. Il portiere capisce l’antifona e si mette subito chieto.

Toni e Marco salgono su da Veronesi, ferito e ingessato, nel primo letto a destra della corsia al primo piano. Rinaldo Veronesi (Giuseppe) è sveglissimo e li aspetta; Suor Rita l’ha avvertito ieri sera: “Domattina vengono i tuoi a portarti via”, e lui, aspettandoli, non ha chiuso occhio tutta la notte. È sveglio come se avesse preso ventiquattro caffè, ha un’agitazione incredibile, ma non può nemmeno cambiare posizione nel letto, se non girarsi con fatica su un fianco, perché ha tutta la gamba sinistra ingessata, e il busto fasciato, come dentro uno scafandro.
Accanto al suo letto c’è soltanto una Camicia Nera, in canottiera, a piantonarlo; l’altra sentinella è andata a dormire a casa, a Decima, e non è ancora tornata. Ma ormai è questione di poco, verso le sette rientra.
Toni coglie di sorpresa la Camicia Nera in canottiera: “Mani in alto. Vieni qui. Dacci una mano a portare giù il malato!” Il poveretto balbetta e incespica, ma Toni gli mette la pistola sotto il naso e dice: “Sbrigati”.
Il fascista e Marco prendono Veronesi per le braccia e per le gambe e cominciano a scendere le scale, ma sul pianerottolo la Camicia Nera inciampa e cade, facendo cadere anche Veronesi. Toni gli rifila un gran calcio in uno stinco e lo lascia per le scale a lamentarsi, gridandogli: “Se ti rialzi t’ammazzo”; prende lui Veronesi per le gambe e ordina a Marco: “Dai, in fretta!”.
Arrivano al piano terra, escono sotto il portico, Clorindo gli spalanca lo sportello, stendono Veronesi sul materasso e salgono in macchina, arriva anche Boccaccio di corsa e Taiadèla parte in quarta. Per ora, tutto bene.

“Lo sapevo che ci si poteva fidare di Suor Rita! Me l’aveva detto che le Camicie Nere andavano a dormire a casa e che rimaneva uno solo di guardia”, dice Veronesi. “Mi aveva detto anche che stamani sareste venuti, ed è stata di parola”.
“Noi siamo stati di parola”, dice Boccaccio, sorridendo. Man mano che si allontanano dal paese, la tensione si allenta. Ma Toni, con le mani strette sul manico della mitragliatrice Breda piazzata contro il lunotto, richiama tutti all’ordine: “Sh! Non è ancora finita. Giuseppe deve ancora arrivare alla base, finché lo portiamo in giro in macchina non è al sicuro”.
Toni torna a guardare dal lunotto se hanno qualcuno alle calcagna, ma dietro non c’è nessuno. La strada è praticamente vuota, a parte qualcuno in bicicletta che si ferma sentendoli arrivare a tutto gas, e si mette il fazzoletto davanti alla bocca per non respirare la polvere.
Una delle due bombole del gas, legate con le cinghie sul tetto della Balilla, si è allentata di nuovo e una bombola ballonzola, ma è meglio non fermarsi, non ancora.
“Dritto fino al ponte di San Giacomo!” ordina Toni a Taiadela.

Al ponte, Toni Clorindo e Boccaccio scendono con le armi in pugno, nascondendosi dietro l’argine, per fermare, se arrivano, gli inseguitori.
Taiadèla si ferma giusto il tempo di farli scendere al volo, e subito riparte.
La base Guernelli, nella campagna di Castel Maggiore, è ancora lontana.
Comunque, questo appena iniziato è un buon giovedì.

Umberto Bianchi di San Venanzio di Galliera, organizzatore di basi partigiane per conto del CLN e grande tessitore di relazioni e di alleanze, lui che gira tutta la bassa in bicicletta per vendere articoli di merceria, arriva a Persiceto nella tarda mattinata e verso l’una va a sedersi nel bar Bergamini, che è anche trattoria, proprio davanti all’ospedale. Mentre mangia capta i discorsi di quattro militi delle Camicie Nere seduti ad un tavolo vicino al suo. Uno di loro, che, scrive Veronesi nel suo diario inedito, “compresi essere uno di quelli alla guardia del ferito”, sostiene che è contento di essersela cavata “come ce la siamo cavata noi”. Il piantone che è rimasto a far la guardia a Veronesi non tradisce il commilitone che è andato a dormire a casa, e quindi la versione ufficiale è che i militi di guardia al ferito sono stati sopraffatti da ingenti forze partigiane.
D’altro canto la storiografia partigiana, nel riportare poi la notizia del blitz, sostiene che il gruppo che ha liberato Rinaldo Veronesi ha colto di sorpresa “le ingenti forze nazifasciste che presidiavano l’ospedale”. Cioè – ma non lo dicono né i fascisti né gli apologeti della Resistenza – il ragazzo in canottiera, mezzo addormentato, rimasto a far la guardia al ferito mentre il suo camerata andava a casa a dormire.
Le cronache, scritte molti anni dopo, riportano a volte la data del 13 settembre, a volte quella del 30 agosto; ma il diario di Toni, conservato nella biblioteca comunale di Persiceto, e le testimonianze di Bruno Corticelli, Vito Giatti e Loredano Zucchelli, raccolte da Albertazzi, Arbizzani e Onofri, permettono di stabilire con certezza il giorno del blitz. Del resto, il 13 settembre era un mercoledì, giorno di mercato, e, anche se in tempo di guerra il povero mercato non era affollato, la fuga in macchina fra i banchetti sarebbe stata improponibile.

Dei protagonisti dell’azione soltanto Marco, Boccaccio e Taiadèla, sia pure attraverso numerose vicissitudini, arrivano vivi alla Liberazione.

Clorindo viene catturato il 7 dicembre al Malcantone di Anzola, nella grande operazione di rastrellamento che i tedeschi portano avanti in tutta la pianura a nordovest di Bologna; portato nel carcere di San Giovanni in Monte, il 10 febbraio 1945 viene prelevato e ammazzato. Il suo corpo non è stato mai ritrovato.
Toni viene ucciso il 17 ottobre al Bargellino di Calderara, mentre si avvicina a Bologna, alla testa di una colonna di partigiani, per l’insurrezione che si credeva imminente. Il suo corpo viene portato dai tedeschi a Persiceto ed appeso ad un albero, tragico ammonimento per tutti coloro che lottano contro le truppe di occupazione.

Rinaldo Veronesi, scampato più volte alla morte sia prima che dopo la sua degenza nell’ospedale di Persiceto, muore due anni fa, quasi novantenne.

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Commenti
Sono stati scritti 2 commenti sin'ora »
  1. avatarAndrea Cotti - 30 dicembre 2013

    Benvenuto Carlo come autore di Persiceto Caffè e grazie per averci proposto questo tuo importantissimo racconto, citato anche dal Gandini nel suo “Fascismo e Resistenza nel Persicetano“.

    Nelle nostre terre in quei periodi sono avvenuti atti di vero eroismo che ognuno di noi deve fare il possibile affinchè non siano dimenticati.

    Nella rubrica La Resistenza ospitiamo alcuni di questi racconti; impegnamoci tutti affinchè possa crescere.  :)

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  2. avatarAndrea Cotti - 30 dicembre 2013

     

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