Fiat: un referendum che viene da molto lontano!

FiatNei prossimi giorni si terrà il referendum che riguarda i lavoratori Fiat, con lo schieramento pro SI formato da governo, partiti politici e sindacati, mentre dal lato dei NO dovrebbe esserci solo la Fiom. Si vedrà cosa decideranno i lavoratori, anche se, ragionando da un punto di vista pragmatico, i giochi sembrano fatti da tempo. Spallata dopo spallata, il conducator di turno (oggi Marchionne) otterrà quello che vuole, perché i poteri forti sono dalla sua parte.

In merito mi sembra rilevante una lettera che 46 economisti hanno scritto sulla questione, solidarizzando con la Fiom  (il testo della lettera è in blu, il resto è commento).

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“Produrre e lavorare meglio, con democrazia. Solidarietà alla Fiom”

Il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l’analoga vicenda per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco – è importante per il futuro economico e sociale del paese. Giornali e tv presentano la versione Fiat, sostenuta anche dal governo, per cui con la crescente competizione internazionale nel mercato dell’auto i lavoratori devono accettare condizioni di lavoro peggiori, la perdita di alcuni diritti, fino all’impossibilità di scegliere in modo democratico i propri rappresentanti sindacali.

E’ interessante il passaggio dove si sottolinea che giornali e Tv presentano agli ascoltatori la versione della Fiat, che poi è anche quella del governo e dei maggiori partiti (compreso PD), cioè che la crisi (nella lettera si parla di “crescente competizione”, forse per non voler infierire troppo fin dall’inizio) porterebbe alla necessità di “abbozzare”, da parte dei lavoratori, e rinunciare ad alcuni diritti (anche quelli costituzionali?), accettando condizioni di lavoro peggiori e l’impossibilità di scegliere democraticamente i propri rappresentanti sindacali (e questo mi ricorda qualcosa!!!).
In sostanza tutto l’accordo sarebbe basato su una premessa fondamentale, cioè che la produzione della Fiat negli altri paesi (tipo Brasile) è molto alta, mentre in Italia è bassa, per fenomeni endogeni, per cui o si riduce l’assenteismo e si aumenta la produzione, oppure la Fiat avrebbe l’intenzione di sbaraccare. Insomma, una sorta di ricatto, o si produce di più per la gioia del padrone oppure il padrone chiude tutto e si trasferisce in lidi migliori dove potrà trovare condizioni di schiav…. ehm di lavoro più proficue.

Dal luglio 2011 se non si sarà raggiunto un livello di assenteismo inferiore al 6% medio i dipendenti che si assenteranno per malattie brevi (non oltre i 5 giorni) a ridosso delle feste, delle ferie o del riposo settimanale per più di due volte in un anno non avranno in busta pagato il primo giorno di malattia. Dal primo gennaio 2012 se l’assenteismo non sarà sceso sotto il 4% i giorni di malattia non pagati saranno i primi due”.
Con la precisazione che l’assenteismo adesso è all’8%.

Vediamo i fatti. Nel 2009 la Fiat ha prodotto 650 mila auto in Italia, appena un terzo di quelle realizzate nel 1990, mentre le quantità prodotte nei maggiori paesi europei sono cresciute o rimaste stabili. La Fiat spende per investimenti produttivi e per ricerca e sviluppo quote di fatturato significativamente inferiori a quelle dei suoi principali concorrenti europei, ed è poco attiva nel campo delle fonti di propulsione a basso impatto ambientale. A differenza di quanto avvenuto tra il 2004 e il 2008 – quando l’azienda si è ripresa da una crisi che sembrava fatale – negli ultimi anni la Fiat non ha introdotto nuovi modelli. Il risultato è stata una quota di mercato che in Europa è scesa al 6,7%, la caduta più alta registrata nel continente nel corso del 2010.

Le cose non sono affatto semplici, quindi, perché la retorica padronale pare disegnare un affresco dove la colpa è tutta da parte dei pessimi lavoratori italiani, che perdono troppo tempo a cincischiare, a parlottare tra loro, casomai di politica (oibò sono lavoratori, mica politici), e talvolta non vanno nemmeno al lavoro preferendo rimanere a casa fingendosi malati. Invece, se guardiamo bene la situazione, possiamo verificare che l’azienda da anni non innova proprio un bel nulla, non produce nuovi modelli e questo perché non investe in ricerca e sviluppo, o quanto meno investe in questo settore, che è essenziale per un’azienda di questo tipo, meno delle altre aziende automobilistiche che, guarda caso, hanno guadagnato quote di mercato in Europa rispetto alla stessa Fiat.

Al tempo stesso, tuttavia, nel terzo trimestre del 2010 la Fiat guida la classifica di redditività per gli azionisti, con un ritorno sul capitale del 33%. La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti.

E qui c’è il punto essenziale al quale dovremmo fare particolare attenzione. In buona sostanza, mentre la Fiat investe poco in ricerca e sviluppo, quindi non innova e se non innova non può, ovviamente, stare alla pari delle concorrenti, e perde quote di mercato, dall’altro lato aumenta la redditività per gli azionisti (i padroni), e l’azienda si sposta sempre più dal ramo produzione a quello finanziario (più o meno quello che accadde con Romiti, e ricordiamo cosa avvenne). Ora è interessante notare che la gestione finanziaria non è che sia un male in sé, ma se parliamo di una azienda che produce beni (auto) e tale azienda sacrifica la produzione a favore del settore finanziario, per cui risulta paradossale che si lamenti del fatto che la produzione vada male. Senza voler giudicare della bontà delle scelte di Marchionne, se io da calzolaio mi trasformo in prestasoldi, non posso poi prendermela per il fatto che produco meno scarpe (e di contro guadagno più soldi col prestito).
E qui non vogliamo nemmeno riproporre il tema della crisi finanziaria dovuta ad una gestione dell’economia improntata all’eccessiva finanziarizzazione slegata dall’economia reale della produzione dei beni, perché fin troppo se ne è parlato. Casomai potrebbe essere utile accennare al fatto che il caro Marchionne ha uno stipendio che è circa 250 volte più elevato di un suo operaio.
Ovviamente può anche essere che sia un bravo manager, ma forse in periodo di crisi potrebbe iniziare proprio lui, se davvero ci tenesse all’azienda, a limitare il suo stipendio, giusto per far vedere agli operai che solidarizza con loro, che anche lui stringe la cinghia. Invece si mette da parte un lauto stipendiuccio, al quale aggiunge le stock option (un altro centinaio di milioni).

Per quanto riguarda l’operazione di ingresso della Fiat in Chrysler, forse bisognerebbe chiarire che non è quel grande affare che viene spacciato qui da noi, come se il Marchionne fosse stato in grado di mettere nel sacco i volponi dell’economia americana. Piuttosto la Fiat ha preso una quota (minoritaria, il 20%, e potrà salire fino al 36% al massimo nei prossimi anni) di una azienda in bancarotta, che ha avuto dei finanziamenti dal governo Usa (3,5 miliardi di dollari) per poter andare avanti e tornare al profitto. La maggioranza delle quote è in mano, per il 55%, al sindacato dei lavoratori (United Auto Worker), i quali sono interessati, appunto, che l’azienda torni al profitto, in quanto i profitti li ricaveranno direttamente loro. Per questo hanno accettato una riduzione dello stipendio.
In Italia, invece, i lavoratori Fiat non partecipano ad un bel nulla, se non in negativo, visto che si vedono ridurre stipendi e diritti. Insomma, negli Usa i lavoratori sono parte della produzione, come anche negli altri paesi (Germania e Francia), mentre in Italia vengono visti da nemici che devono accettare le proposte dall’alto dei cieli senza nemmeno bofonchiare.

A dispetto della retorica dell’impresa capace di “stare sul mercato sulle proprie gambe”, va ricordato che la Fiat ha perseguito questa strategia ottenendo a vario titolo, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni duemila, contributi pubblici dal governo italiano stimati nell’ordine di 500 milioni di euro l’anno.

Ecco un altro punto fondamentale. In tanti anni la Fiat ha accumulato contributi pubblici dallo Stato italiano che avrebbero potuto essere utilizzati in maniera migliore. Ad esempio quei soldi avrebbero potuto finanziare qualche nuovo progetto per lanciare sul mercato un prodotto innovativo, più avanzato e in grado di tenere la concorrenza. Oppure, aggiungo io, si sarebbero potuti utilizzare per una seria riconversione industriale, ad esempio facendo entrare l’azienda nel settore delle energie alternative, laddove il solare fotovoltaico nel 2010 ha avuto un boom eccezionale (+127% nel secondo trimestre 2010) anche in Italia (ma le Tv quasi non ce lo dicono, preferiscono battere sul nucleare). Ma per una seria riconversione, ed una conseguente riqualificazione dei lavoratori, i soldi li dovrebbero mettere anche i padroni della Fiat, cioè gli azionisti di cui sopra (e loro preferiscono prendere piuttosto che sborsare).

A fare le spese di questa gestione aziendale sono stati soprattutto i lavoratori. Negli ultimi dieci anni l’occupazione Fiat nel settore auto a livello mondiale è scesa da 74 mila a 54 mila addetti, e di questi appena 22 mila lavorano nelle fabbriche italiane. Le qualifiche dei lavoratori Fiat sono in genere inferiori a quelle dei concorrenti, i salari medi sono tra i più bassi d’Europa e la distanza dalle remunerazioni degli alti dirigenti non è mai stata così alta: Sergio Marchionne guadagna oltre 250 volte il salario di un operaio.

Questo è un altro punto essenziale. La cosa alla quale non si pensa mai, quando si disquisisce allegramente e con scarna cognizione di causa sulla crisi che porterebbe necessariamente ad una riduzione degli stipendi dei lavoratori, perché tutti “devono fare la loro parte” (ma poi i Marchionne non la fanno!), è che se anche la Fiat riuscisse a produrre tutte le auto che vorrebbero, non ci sarebbe nessuno a comprarle. Prima di tutto i paesi d’Europa, e soprattutto l’Italia, sono nazioni nelle quali il mercato dell’auto è saturo, e quindi per fare in modo che le auto si vendano si deve forzare la dismissione delle auto più vecchie, bloccando la circolazione alle auto che non siano Euro 4, Euro 5, 6, ecc… così chi ne ha davvero necessità deve comprarsi una nuova auto ogni 2 anni (con gravi problemi di rifiuti dovuti alla rottamazione delle vecchie auto). Ma in Italia i salari sono così bassi che le famiglie non arrivano a fine mese, per cui non si capisce proprio chi dovrebbe assorbire un aumento della produzione di auto. Se queste devono essere destinate al mercato extra UE, invece, non ha senso produrle in Italia, perché il costo del trasporto è abbastanza elevato (date le dimensioni dei beni).
In Cina, tanto per fare un esempio, il governo appoggia (a differenza del governo italiano) le rivendicazioni dei lavoratori proprio al fine di creare un mercato interno che possa assorbire la produzione cinese.

Questi dati devono essere al centro della discussione sul futuro della Fiat. L’accordo concluso dalla Fiat con Fim, Uilm e Fimsic per Mirafiori – che la Fiom ha rifiutato di firmare – prevede un vago piano industriale, poco credibile sui livelli produttivi, tanto da rendere improbabile ora ogni valutazione sulla produttività. L’accordo appare inadeguato a rilanciare e qualificare la produzione, e scarica i costi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Sul piano delle relazioni industriali i contenuti dell’accordo sono particolarmente gravi: l’accordo si presenta come sostitutivo del contratto nazionale di lavoro, e cancellerebbe la Fiom dalla presenza nell’azienda e dal suo ruolo di rappresentanza dei lavoratori che vi hanno liberamente aderito.

L’accordo si presenta come sostitutivo del contratto nazionale di lavoro, in pratica un apripista, in grado di mettere con le spalle al muro un sindacato.

Il referendum del 13-14 gennaio tra i dipendenti sull’accordo, con la minaccia Fiat di cancellare l’investimento nel caso sia respinto, pone i lavoratori di fronte a una scelta impossibile tra diritti e lavoro. In questa prospettiva, la strategia Fiat appare come la gestione di un ridimensionamento produttivo in Italia, scaricando costi e rischi sui lavoratori e imponendo un modello di relazioni industriali ispirato agli aspetti peggiori di quello americano.
Esistono alternative a una strategia di questo tipo
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Niente di nuovo sotto il sole, si scarica la crisi sui più deboli, i lavoratori. Peccato che la crisi, in questo caso, dipenda anche dalle scarse capacità dei padroni e dalla loro specifiche scelte di spostarsi dalla produzione di beni alla gestione finanziaria. Insomma, la Fiat fa una riconversione da industria a finanziaria, facendola pagare ai lavoratori.

In Europa la crisi è stata affrontata da imprese come la Volkswagen con accordi sindacali che hanno ridotto l’orario, limitato la perdita di reddito e tutelato capacità produttive e occupazione; in questo modo la produzione sta ora riprendendo insieme alla domanda. Produrre auto in Europa è possibile se c’è un forte impegno di ricerca e sviluppo, innovazione e investimenti attenti alla sostenibilità ambientale; per questo sono necessari lavoratori con più competenze, meno precarietà e salari adeguati; un’organizzazione del lavoro contrattata con i sindacati che assicuri alta qualità, flessibilità delle produzioni e integrazione delle funzioni. E’ necessaria una politica industriale da parte del governo che non si limiti agli incentivi per la rottamazione delle auto, ma definisca la direzione dell’innovazione e degli investimenti verso produzioni sostenibili e di qualità; le condizioni per mercati più efficienti; l’integrazione con le politiche della ricerca, del lavoro, della domanda. Considerando l’eccesso di capacità produttiva nell’auto in Europa, è auspicabile che queste politiche vengano definite in un contesto europeo, evitando competizioni al ribasso su costi e condizioni di lavoro. Su tutti questi temi è necessario un confronto, un negoziato e un accordo con i sindacati che rappresentano i lavoratori dell’azienda.

Poiché il mercato europeo è saturo, c’è poco da fare. Qualcuno deve smettere di produrre auto, e la Fiat è il soggetto debole. Pare ovvia la conclusione, lo Stato invece di concedere contributi diretti ed indiretti a fondo perduto, con la scusa di salvare i lavoratori, avrebbe dovuto avviare un serio percorso di ripensamento del piano industriale, dialogando con i lavoratori come è avvenuto nel resto d’Europa (e negli Usa).

In nessun paese europeo l’industria dell’auto ha tentato di eliminare un sindacato critico della strategia aziendale dalla possibilità di negoziare le condizioni di lavoro e di rappresentare i lavoratori. L’accordo Fiat di Mirafiori riduce le libertà e gli spazi di democrazia, aprendo uno scontro che riporterebbe indietro l’economia e il paese.

Ci auguriamo che la Fiat rinunci a una strada che non porterebbe risultati economici, ma un inasprimento dei conflitti sociali. Ci auguriamo che governo e forze politiche e sindacali contribuiscano a una soluzione di questo conflitto che ristabilisca i diritti dei lavoratori a essere rappresentati in modo democratico e tuteli le condizioni di lavoro. Esprimiamo la nostra solidarietà ai lavoratori coinvolti e alla Fiom, sosteniamo lo sciopero nazionale del 28 gennaio 2011 e ci impegniamo ad aprire una discussione sul futuro dell’industria, del lavoro e della democrazia, sui luoghi di lavoro e nella società italiana.

In conclusione si potrebbe dire che il destino della Fiat è segnato. Parliamo di una azienda che non innova da anni e non investe più se non nel settore finanziario, in sostanza si sta trasformando in una finanziaria. Sotto questo profilo ha tutto l’interesse ad uscire dall’Italia, visto che il mercato auto europeo è fermo da anni, perché saturo, e la Fiat perde quote perché, appunto, non innova. Mentre invece ha interessa ad investire nella Chrysler, come finanziaria, perché lì c’è l’interesse da parte dei lavoratori, che sono anche i padroni, a rimettere in sesto l’azienda, oltre che mantenere la produzione in paesi in via di sviluppo, come il Brasile, dove le auto si vendono ancora.
E quindi abbastanza probabile che alla fine, dopo che avrà saputo tirare fuori un altro bel po’ di contributi statali, e aumentato le sue stock option, Marchionne vada negli Usa per occuparsi casomai della Chrysler. Del resto la cittadinanza Canadese la ha già.
Nel frattempo, però, potrà avere il merito di aver spaccato (nel più classico divide et impera) il fronte sindacale, e di questo il governo  ne sarà ben contento.
E non solo il governo, in considerazione del fatto che la rottura del fronte sindacale, con la restaurazione della libertà individuale nelle aziende (ogni lavoratore decide per sé, così, essendo da solo sarà più facilmente soggetto di pressioni da parte dei padroni), e il ripristino del ruolo di sindacato di collaboratore del fenomeno produttivo, in luogo di quello di interlocutore in vista di decisioni politiche aziendali, era un punto programmatico del piano di rinascita democratica di Licio Gelli (leggere sezioni Sindacati).


Commenti
Sono stati scritti 7 commenti sin'ora »
  1. avatarTiziana Bisogno - 11 gennaio 2011

    Grazie Bruno per il tuo commento alla lettera degli economisti. L’avevo letta, ma commentata così bene mette in luce sfumature che non avevo colto.  Certo non è facile la posizione dei lavoratori Fiat e, come ha detto stasera Rodotà, il diritto fondamentale che viene tolto loro è la libertà. Libertà di scegliere, libertà di dire sì o no. Coi ricatti è così.
    Impressionante la tua conclusione. Quando si parla del vecchio di Castiglion Fibocchi mi vengono i brividi.

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  2. avatarcarmengueye - 12 gennaio 2011

    Articolo praticamente esaustivo, l’ho condiviso.

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  3. avatarAndrez - 12 gennaio 2011

    “la Fiat è la nostra fabbrica, la nostra casa del lavoro, la difenderemo a costo della nostra vita…”. Sandro Pertini, febbraio 1945 ai lavoratori Fiat di Torino in risposta alle minacce dei nazi fascisti di distruggere la fabbrica.

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  4. avatarZeitgeist - 12 gennaio 2011

    NON GIUSTO, DI PIU’!!!!!!!!!!!!! CARO COMPIANTO SANDRO.
    LA LOTTA DEVE CONTINUARE O SARA’ LA FINE.  😈

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  5. avatarMassimo - 12 gennaio 2011

    Bella la lettera ottima l’analisi; la condividerò! Leggendola sono tornato indietro con il tempo, quando Romiti, prese il posto dell’allora AD Fiat Ghidella unico manager Fiat che merita di essere ricordato, visto i successi ottenuti con auto da lui progettate e messe sul mercato come la UNO. Romiti diversamente, verrà ricordato per una linea antisindacale durissima, trasformò l’azienda da produttrice di automobili a finanziaria, si rese protagonista di orchestrare i cosiddetti “quarantamila colletti bianchi” che sfilarono per le vie di Torino contro le manifestazioni degli operai che si opponevano alla cassa integrazione per migliaia di dipendenti.
    Dopo trent’anni la storia si ripete con Marchionne; le forme di ricatto sono diverse ma producono effetti simili dividendo il fronte sindacale il quale, (questo è una mia convinzione) eccezion fatta per la FIOM, oggi in Italia è diventato soltanto un ennesimo centro di potere che tutto fa, meno che rappresentare le istanze dei lavoratori.
    Mi piace molto la tua conclusione e il riferimento al piano di rinascita democratica di Licio Gelli.

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  6. avatarcarmengueye - 12 gennaio 2011

    In effetti non si ricorda abbastanza che la politica industriale relativa al coreless, le auto, è stata fallimentare. Tutto hanno fatto, assicurazioni, yogurth, tranne che produrre e vendere valide vetture.

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  7. avatarBlog di Andrez » Blog Archive » La Fiat lascia l’Italia? - 10 febbraio 2011

    […] avevamo detto, non che fossimo gli unici, del resto non ci voleva la sfera di cristallo per capirlo, bastava […]

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