5 dicembre 1944: rastrellamento di Amola

Chiesa Amola di PianoMatteo Zambelli:

"Ai tanti che invocano il ritorno di fascismi vari, leggete un po', aprite il cervello, e rendetevi conto che non sapete neanche di cosa state parlando…"

 

Amola del Piano è una frazione di S. Giovanni in Persiceto. Nella zona operava un btg della 63a brg Bolero Garibaldi. Di come si svolse l’operazione è possibile leggerla qui.
In questa pagina ho raccolto le testimonianze di chi ha vissuto quelle drammatiche ore in prima persona.

Testimonianze

AUGUSTO MONTEVENTI
Vice comandante nel battaglione «Sergio» della 63a brigata Garibaldi

Il 5 dicembre 1944 Anzola subì un duro rastrellamento da parte di paracadutisti e di SS, ai quali si affiancarono i fascisti di Anzola che ritornarono in paese per sfogare il loro livore contro la popolazione ed i partigiani.
Servendosi di una spia, andarono in diverse basi e arrestarono diversi contadini e partigiani ed in paese portarono tutti gli uomini che trovarono mettendoli nelle scuole comunali. Gli arrestati furono portati in parte nelle carceri di Bologna in parte furono fucilati a Sabbiuno, altri a San Ruffillo, una parte invece fu mandata nel campo di concentramento di Mauthausen; pochi di questi ritornarono In quel Lager morirono 13 partigiani anzolesi e fra questi anche il carabiniere partigiano Ferdinando Micelli.

JOLE VERONESI

La mattina del 5 dicembre ci fu un grosso rastrellamento fatto dai repubblichini e dai tedeschi per la delazione di una spia, un brigatista nero di nome Ugo Lambertini. Rastrellarono tutte le migliori basi, che poi incendiarono, e portarono gli uomini nelle scuole di Anzola, poi al Lavino di Mezzo ed infine a San Giovanni in Monte, da dove venivano prelevati e portati al comando tedesco, in via Santa Chiara, per duri interrogatori e confronti con il delatore; mi recai là diverse volte per potere avere un colloquio col mio fidanzato, ma non vi riuscii. Ebbi sue notizie da un suo zio, anche lui arrestato e poi rilasciato; mi disse che si disperava per me e per il bimbo che doveva nascere e mi fece recapitare, su di un foglio di carta straccia, le sue ultime volontà che mi servirono per poter riconoscere nostro figlio come figlio naturale e orfano di guerra

ARMANDO MARZOCCHI
Partigiano nel distaccamento di Anzola della 7° brigata GAP

Il 5 dicembre i nazifascisti attuarono uno spietato rastrellamento nella zona di Amola, che costò la vita a venti partigiani, trucidati alla fine del mese nei calanchi dei Colli di Paderno, a Bologna, e la deportazione di dieci partigiani e civili in Lager tedeschi dai quali otto non faranno ritorno.
Due giorni dopo, il 7 dicembre, i nazifascisti ripeterono l’azione nelle zone di Borgata Città e Borgata Casale con arresti e deportazioni di undici partigiani e altri arresti furono effettuati il 14 dicembre. Malgrado queste perdite il movimento, grazie all’ampiezza della partecipazione popolare, riuscirà però a ricomporsi presentandosi con nuova forza e slancio nelle giornate insurrezionali.

VITTORIO SERRA

Nella notte fra il 4 e il 5 dicembre 1944 un grande rastrellamento colpì tutta la frazione. Erano circa le 5 del mattino quando entrarono in casa dopo aver rotto la vecchia porta. Io scesi subito, per primo. C’erano sette o otto tedeschi e Hans, il tedesco che era stato con i partigiani di Amola. Mi fecero accostare al muro e due si misero ai miei fianchi con la pistola puntata. Altri salirono la scala e, giunti nella camera, dissero forte: « Serra Luciano, alzati! ». Hans disse: « Questo è il commissario della brigata rossa ». Poi fecero alzare anche l’altro mio figlio, Dante, e dissero a mia moglie di stare a letto. Ma lei rispose che si alzava.

Intanto che i figli si mettevano qualcosa addosso, i tedeschi frugarono nel letto e sotto il mio cuscino trovarono il mio portafoglio e lo presero, nonostante le proteste insistenti di mia moglie. Quindi scesero tutti. Mia moglie protestò ancora con il comandante per quello che facevano, e anche per il portafoglio, che così mi venne restituito.
I tedeschi cercavano e chiedevano di Brunello. Misero sottosopra un magazzino dove avevamo un poco di canapa ammucchiata. Naturalmente non trovarono nulla e noi non dicemmo nulla. Allora chiesero della corda. Mia moglie temeva che ci impiccassero subito. Invece, quando la trovarono, se ne servirono per legarci le mani dietro alla schiena. Un tedesco intanto ci disse: « Adesso preparatevi alla fucilazione ». Mio figlio Luciano si rivolse alla mamma e disse: « Non dargli mica retta, mamma, non è vero ».

Quindi ci unirono ad altri due rastrellati, uno degli Alberghini e uno dei Manfredi. Una parte dei tedeschi, però, rimase in casa e si fecero preparare da mangiare, esigendo quello che trovavano: salsiccia, salame e altro.
Poi presero le nostre biciclette e, esclusi due, se ne andarono. I due rimasti non permisero a mia moglie e alle due figlie di muoversi. Non poterono assolutamente uscire di casa per tutto il giorno. Verso sera, altri sei o sette tedeschi giunsero con l’intenzione di sistemarsi per dormire; poi sopravvenne un ordine e se ne andarono tutti.

Intanto noi, al mattino, eravamo stati portati al forno, in via Crevalcore, dove erano raggruppati molti dei rastrellati; poi, in colonna, a piedi e sotto scorta tedesca armata, ci fecero andare alla chiesa di Amola dalla quale il parroco era assente, passando da via Amola.

Rinchiusi nella chiesa scelsero i più noti ad Hans per le attività partigiane e li fecero passare in sagrestia; gli altri — escluso qualche vecchio lasciato libero, li rimisero in colonna e, per via San Bernardino, tra la nebbia, li fecero andare a Sant’Agata Bolognese.
Io ero fra quelli trattenuti in sagrestia, assieme ai due figli. Cominciarono a maltrattarci, a bastonarci. I più giovani li facevano passare sull’altare, li picchiavano e li schiaffeggiavano. Più tardi con un camion tutto chiuso, per cui non potevamo capire dove andavamo, ci portarono anche noi a Sant’Agata, nel teatro, dove ce n’erano tanti che riempivano la sala, i corridoi, le scale. A noi fu riservata la galleria.

Qui venne fatto il confronto, uno per uno, con Hans, e anche Fred che non faceva altro che confermare. Io dissi che non sapevo nulla di attività partigiane dei miei figli. E in realtà non sapevo molto, poiché loro non si confidavano e nemmeno lo volevo che ne parlassero. Ma ne sapevo abbastanza per dover tacere ai tedeschi.
Dopo questa « prova » una gran parte dei rastrellati — circa 230 persone — venne rilasciata. Gli altri, tra cui anch’io, rimasero nel teatro per tre giorni e tre notti, senza mangiare.

Quando ritornai a casa, mia moglie mi disse che il mattino seguente il rastrellamento lei e moltissime altre donne erano andate a Sant’Agata per avere notizie.
Ma c’era un forte schieramento di tedeschi e nessuno veniva ricevuto, anzi furono trattate in malo modo. Così dovettero rassegnarsi e tornare a casa.
Dai conti dei rilasciati e poi da quello dei caduti e dispersi, si può calcolare che eravamo una sessantina, fra cui otto donne: Dina Toselli, Berta Forni, Nella Alberghini, Teresa e Romana Manzi, Rina e Giordana Martinetti, Maria Manfredini.
Noi uomini fummo legati con una fune sottile e con una « cavezza » (a cui era ancora attaccata la mordecchia), e ciò ci causava un male atroce. Le donne cercarono di fare un poco di fuoco racimolando quello che era possibile. Riuscirono a fare anche una specie di caffè per darci qualcosa da bere.

DINA POGGI

II rastrellamento del 5 dicembre 1944 nella nostra località avvenne in questo modo.
La prima casa fu quella di Manzi, che era più spostata nella valle. Lì presero tutti, lasciando a casa solo la moglie e una ragazzetta. Giunsero poi alla nostra casa, alle otto del mattino. La circondarono e poi vennero avanti. Noi eravamo appena alzati. Entrarono e ci fecero uscire; i bambini li chiusero in casa, rovistarono in tutte le nostre stanze e anche nel fienile. Ci misero tutti in fila davanti a casa, insieme ai Manzi e agli altri che arrestavano, mano a mano che passavano per la strada.

Nella nebbia videro a distanza un uomo che attraversava la campagna, spararono in quella direzione e poi lo fecero venire da noi. Era un ragazzo, figlio di Melloni, che poi lasciarono andare. Noi abbiamo dato ai Manzi delle calze da mettere ai piedi perché li avevano fatti uscire in fretta senza permettere loro di vestirsi e così tremavano per il gran freddo.

Prima di partire con i rastrellati aprirono la porta e lasciarono uscire i bimbi. Poi « allentarono » la
guardia ai rastrellati; mio marito si appoggiò allora alla porta di casa e, forse per tranquillizzarci, accese una sigaretta. Un tedesco gli diede allora uno schiaffo che gli fece saltare la sigaretta.
Intanto in casa avevano finito la perquisizione. Tutto era sottosopra, ma non avevano trovato nulla. Presero un libretto di banca al portatore, dove c’erano 12.000 lire che vennero ritirate. Ritrovammo il libretto all’ufficio danni di guerra.

Finita la perquisizione lasciarono andare alcuni passanti che erano stati fermati e poi avviarono i rastrellati, a piedi e incolonnati, verso Persiceto.
Rimasi a casa io, mia cognata, la suocera di 70 anni ed i bimbi (Orazio di 8 anni e la piccola di 7 mesi): guardammo disperati i nostri cari che si allontanavano nella nebbia e li seguimmo con lo sguardo finché fu possibile vederli. Poi andai a Sant’Agata con dei documenti per vedere se potevano contare qualcosa e se potevo incontrarli, ma non ci fu nulla da fare. Il giorno dopo andò Rina, moglie di Mario: le fecero vedere suo marito con le mani legate e una croce segnata sulla schiena, con del gesso bianco: era il segno di identificazione come partigiano.

Dopo li trasferirono a Bologna e la Rina andò due volte a portare roba da mangiare e da vestire, ma senza mai riuscire ad avere un colloquio. In seguito sapemmo che mio marito Albano era stato portato via il 14 dicembre e fucilato ai colli di Paderno; Mario, invece, venne fatto partire per la Germania con quelli del 23 dicembre del 1944 ed è morto nel Lager. L’avv. Ario Costa di Bologna, egli pure internato in Germania, ci ha detto che Mario, il 12 aprile 1945, era sfinito e cadde a terra non potendone più. Erano nel campo di Mauthausen ed è finito in un forno crematorio.


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