A Londra con Andrea Poli

La Betti era una bellissima artista.

Aveva idee e talento e sapeva mettere le cose assieme con buon gusto e gradevole senso estetico. Lei e Andrea Poli erano una coppia molto particolare, curiosi, geniali e creativi sempre in cerca del nuovo;  erano più che frizzanti, effervescenti.

Una sera arriva Andrea e mi racconta che con la Betti hanno deciso di creare una boutique viaggiante, da portare a Riccione d’estate e a Cortina d’inverno e hanno progettato di farlo utilizzando un autobus inglese, opportunamente adattato e preparato alla Carnaby Street così da renderlo una cosa originale ed unica, una di quelle che quando lo vedi non puoi fare a meno di urlare Wow! voglio entrare lì!

Andrea si era già mosso ed aveva trovato e contattato un autosalone a Londra che ne aveva una dozzina nel cortile; si trattava di partire e andare là, preparare i documenti necessari per l’espatrio, quelli per l’immatricolazione in Italy, effettuare il trasferimento bancario e… portarlo a casa. E per quello servivo io, che avevo la patente per i bus.

Era un autunno del 1975, forse ’76 e Andrea aveva poco più di vent’anni.

Attraversammo tutta la Francia e poi la Manica in auto senza mai fermarci ed arrivammo in una umidissima e ventosa Londra sfiniti, dove trovammo da dormire a casa di un tizio scoppiatissimo che ci suonò una specie di organetto scozzese tutta la sera, e la mattina sua moglie ci sconvolse con il suo tipico breackfast inglese con uova e bacon fritti e poi pane soffritto nel grasso pure lui, caffè e tè e toast vari e una specie di bignè dolcini fuori ma farciti di un imprecisato grasso tritato, rappreso. Che trattenemmo a stento i conati.

Tutta la mattina Poli corse e discusse e scartabellò carte con il proprietario del salone e nel primo pomeriggio avevamo un fantastico Bus double decker, da portare in Italy. Mi spiegarono le regole basilari per guidarlo e su cosa fare e NON fare, in inglese, a me che non sapevo una parola in quella lingua forestiera. E al primo tentativo di guida me la vidi subito grigia alquanto, sotto lo sguardo costernato e perplesso del vecchio venditore inglese, improvvisato istruttore; era certo che non saremmo nemmeno arrivati in Francia, e ci diede il suo numero per il soccorso con traino.

Era un Bristol 16.000 cc. ed aveva la guida a destra e il cambio 5 marce non sincronizzato con una lunghissima asta. Le marce si trovavano tutte in pochi centimetri di escursione e solo compiendo con l’asta tortuose quanto bizzarre rotazioni, ed entravano esclusivamente in un ristrettissimo gap di giri del motore; cento giri in più o in meno e nessuna marcia entrava più ed era un’apoteosi di grattata d’ingranaggi. Toccava fermarsi e ripartire dalla prima. Da panico. E dovevamo attraversare la Francia e poi le Alpi con quello.

Arrivati a Dover verso sera, praticamente quasi per caso, per il traghetto per Dunkerque c’era una fila mostruosa di Tir fermi causa credo uno sciopero di chissàchi.  Restammo là fermi fino a notte inoltrata, poi improvvisamente la situazione si sbloccò ed in pochi minuti imbarcammo l’ambaradàn e in un battibaleno (si fa per dire) si era già in Francia.

Senza dormire un minuto iniziammo subito la traversata francese, oramai ingorilliti dalla raggiunta padronanza dell’uso del cambio, che maneggiavo già – in modo insperato – come un vecchio e scafato camionista. L’aria era tiepida e sul percorso caricammo tutti gli autostoppisti che incontrammo, creando un ineguagliabile melting-pot feeling  tra quei ragazzi di diverse nazionalità subito a loro agio in quel bus double decker; era l’atmosfera che Poli e Betti amavano di più, da impareggiabili freak quali erano.

Verso sera e verso Lione, eravamo scoppiati in tutti i sensi. Prima ci perdemmo in una rotonda raccordata autostradale con tangenziale incorporata, e praticamente girammo in tondo per una buona mezz’ora, poi decidemmo di fare rifornimento ed ho divelto subito il tetto del distributore, col nostro bel bus double decker. Ma eravamo dei bruti, oltre che giovanissimi, e tenemmo duro per tutto l’attraversamento alpino, portando infine il bus a Persiceto con successo.

Che poi la Betti cambiò idea, e non la volle più fare la boutique viaggiante, e così Poli scambiò il bus double decker per alcune auto usate con un salone aretino, che lo avrebbe messo in cortile come spazio giochi per i bimbi. Ma una sera, prima che il bus double decker andasse a Rieti, che si era tutti da Bergamini e pure un po’ sul fatto, cominciammo a dire che toccava fare qualcosa che non si aveva voglia di andare a letto e la Betti a dire che sì ma basta, ma che noia… e così -da panico- andammo a prendere il bus double decker che era parcheggiato lì alla Opel di Via Bologna, con la sua bella targa inglese, senza libretto e senza assicurazione e facemmo il giro di tutti i bar, delle osterie e delle baracchine; ci fermavamo davanti e aprivamo la porta pneumatica della salita, e senza dire una parola tutti i presenti entravano.

Il bus double decker si riempì in un attimo. E girammo e suonammo e rollammo tutta la notte. Che oltre le chitarre si erano portati di tutto sul bus double decker;  c’era pure chi era salito con il Ciao e faceva le impennate nel corridoio centrale.

E’ stato molti anni fa.  :)

Un incontro “speciale”

UN INCONTRO “SPECIALE”
Pietro era un cantoniere comunale. Era anche un gran lavoratore. Pietro era un ritardato mentale, anche un alcolizzato, Pietro aveva alle spalle una storia di tristezze e degrado, aveva la testa di un bimbo di 4 anni ma la gente, certa gente che ne avevano una ancora più ritardata, si divertiva a fargli scherzi, spesso crudeli… e ridevano. Santiddio come detestavo quelle risate, da cretino.
Io il Pietro lo trattavo come tratto qualsiasi persona, ma gli parlavo come si parla ad un bambino, lo facevo in modo semplice e diretto.
Eravamo diventati amici.

Quando lo vedevo ubriaco, lo rimproveravo e lui semplicemente “mi mandava a cagare”. Il giorno dopo però mi fermava e mi diceva “non ce l’ho mica con te sai?”.
Un giorno mi chiese: “perchè non andiamo a mangiare una pizza una sera?” – “va bene Pietro, facciamo Venerdì? Alle 20? Davanti a questo bar? ”
E arrivò Venerdì.
Arrivai con 5 minuti di ritardo, la barista mi disse “è di là, molto nervoso, che ti aspetta, è dalle 6 che aspetta”. Lo chiamai, rimasi letteralmente di stucco… si era sbarbato, lavato, profumato, con una camicia nuova, l’abito bello, pettinato… insomma non lo riconoscevo più rispetto all’uomo trasandato che mi aspettavo di vedere.

“Huè Pietro, non sono mica una bella f… “.
Contentissimo salì in auto ed arrivammo alla pizzeria di Stuffione. Entrò con fare familiare e già all’entrata gridò “2 pizze con la salciccia che pago io !” “Aspetta Pietro, sediamoci prima” dissi non senza vergogna.
“Ciao Pietro, buonasera anche a lei, cosa vi porto?” “2 pizze e un litro di vino bianco, che pago io”. “Aspetta Pietro, prendiamone un quartino, che dopo semmai lo riordiniamo…”

Passammo una serata serena, parlando del più e del meno, come due vecchi amici.
Arrivati al conto gli dissi che non era giusto che pagasse tutto lui e gli proposi di fare alla “romana”, sbuffò un poco poi la spinta “avara” che aveva sempre avuto prese il sopravvento e così facemmo.
Pietro morì qualche mese dopo, appena arrivato alla pensione. Al suo funerale c’era moltissima gente, perchè era molto conosciuto. Ho partecipato al suo addio.
Con molta tenerezza.

La zia di Fabio Fantuzzi

La Zia (di Fabio Fantuzzi)

Sono apparse in rete in questi giorni le considerazioni filosofico-politiche della zia di Fabio Fantuzzi sui personaggi politici del Pd,  dai candidati alla Segreteria ai dirigenti Pd in genere.

Formidabili perle di antica saggezza persicetana che fotografano i personaggi con le parole, forse meglio di come il nipote faccia con la macchina fotografica; da non perdere assolutamente. :mrgreen:

 

Zia ti piace Cuperlo?  – “It mat? An al tucarev gnanch con un baston!” (trad. da tenere alla larga)

Zia: – “Tutte le volte che D’Alema appare in tv mi viene lo “scramlizzo” (trad. repulsione, brivido)

Zia e Barca ti piace? – “Ah è bravo e l’è un bèl zouvàn, ma quando parla mi viene “al làt ai znùch” (trad. il latte ai ginocchi – indifferenza e noia)

Zia: – “Ma i traditori di Prodi assieme ai traditori del Banana, ci salveranno da “Zagnucco”?” (Trad. figura mitologica amolese)

La Zia segue il dibattito: … “I Senatori delle stelle sono dei “Bazurloni” (Trad. cazzoni)

Zia allora? … il banana resta a bordo, tra pochi giorni si ricompra la ciurma… “unzugarev i zanèt” (trad. ci scommetterei)

Zia: … Questa cosa avvallata da Letta di togliere l’IMU ai ricchi sfondi non la capisco “l’umper na’ strunzeda” (Trad. mi sembra un errore)

La Zia Renziana: … quindi lo slogan di Cuperlo sarebbe “E’ ORA DI CREDERCI”? … Alòura fino a adesso se ne sono sbattuti i Zanetti? (Trad. lo scroto)

La zia: … quel ragazzino lì, Renzo Mattei, parla a segno, poi mi mette addosso una certa sgargiula (Trad. stato di ebrezza)

Zia: Fabio scusa, questo ragazzo qui, Pittella… non sarà micca uno di Decima?

Zia: … il nazista? l’andeva suplè molto prima… (Trad: doveva essere cancellato)

La Zia:.. mai più larghe intese! La sinistra che non cambia è destra! Renzo al và Zò Pera! (Trad: non ha peli sulla lingua)

A pranzo con la Zia: Cuperlo minestra col dado, scaldata. Civati un bignè mignon della Dora, Renzi tagliata al sangue: “dipand-set-vu-magner”. (trad: vedi tu)

… Zia: …persiceto caffè? Chiedigli bèn se tengono i “Boeri” (trad. cioccolatoni al liquore di una volta).  :mrgreen:

Antonio Muratori

Ho vissuto molti anni nell’osteria di mia nonna “ustarì ad Lucheta” a Crevalcore e lì ho conosciuto un’umanità ormai scomparsa.
Antonio Muratori era un avventore della mia osteria, alcolizzato, a volte litigioso, a volte in vena di racconti.

Era nato ad Amola di S. G. Persiceto e fin da bambino era stato un “caso” difficile. Giovanissimo lasciò la casa paterna e partì con una carovana di gitani. Lo ritroviamo nel 1944 comandante di una brigata partigiana, eroe nella lotta di liberazione, vero impavido nelle azioni più rischiose. Venne accusato di avere ammazzato il cognato, fascista, fatto sempre negato da lui.

Ma alla fine della guerra che può fare uno “zingaro” che ormai non comandanda più niente. Così si da all’alcool.
Per vivere fa saltuari lavoretti, ma l’attività che lo rende famoso è quello del ladro di bicilette. Si trasferisce a Ravarino, aiutato dall’amministrazione, forse per i suoi meriti passati ma forse solo per la propria indigenza.

E’ molto conosciuto; se ti viene a mancare la bicicletta non devi far altro che andare a casa sua a riprenderla, ma quale denuncia, vai lì e te la riprendi perchè lui, dice, l’ha trovata in fondo a un fosso. Qual’è il problema?
Muore nella sua casa circa trent’anni fa, consumato dall’alcool. Ma nello sgomberare le sue cose ritrovano un plico legato con uno spago: contiene poesie, dicono bellissime, scritte di suo pugno. Se qualcuno mi legge e ne ha possesso vorrei che mi contattasse per poterle visionare.

Io Antonio l’ho consciuto e sopportato nei suoi deliri etilici, vorrei conoscerlo meglio, i poeti sconosciuti sono sempre i più commoventi.

25 Aprile 1945

25 Aprile 1945

“…Il viaggio fu lungo, la gente mi fermava continuamente… Mi chiedeva se la guerra era veramente finita. Erano circa le 23,30 quando arrivai a Persiceto.
Al buio, in bicicletta, attraversai Corso Italia.
Vicino alla Cassa di Risparmio mi sentii intimare il “Chi va là”.
In un attimo fui dietro una colonna del portico al riparo, lo sten giù di sicura.
Poi capii che si trattava di un gruppo di partigiani di ronda.

Mi feci riconoscere, ci salutammo e mi avviai verso Via Permuta per raggiungere il n. 12. Fu una grande festa, si alzarono da letto tutti: il nonno Ernesto, vecchio socialista, mia sorella Cotti Rosa con il marito Scagliarini Gino e l’altra sorella Anna che tante volte avevano rischiato la vita, facendo da staffetta e portandomi viveri quando ero nei casottí della Partecipanza; si alzò pure mio nipote ed alcuni vicini vennero a salutarmi. Si parlò della guerra finita, dei sacrifici fatti, dei lutti (tanti) che aveva lasciato e delle misere condizioni in cui aveva ridotti tutti.
Il giorno dopo, prima di ripartire, mi intrattenni sulla piazza con persone, le quali chiedevano notizie dei parenti che erano con me in montagna: Enrico Nicoli (Rico), Dario Forni (Leo) e il caro amico Serrazanetti Alessandro (Tito).
Mi chiesero informazioni anche di uno che era morto in combattimento.
Non glielo dissi. Fui un vigliacco?
Mi ricordai la madre che mi aveva dato le calze preparate per il figlio e non mi sentii di dirglielo.

Tornai a Modena per la sfilata finale e la consegna delle armi.
Quindi mi stabilii a Persiceto definitivamente.
Dissi a Vecchi Enrico, a Zanetti Ariodante, a Scagliarini Giorgio e ad altri di inoltrare richiesta per il riconoscimento della qualifica di “partigiano”.
Si rifiutarono, con troppa modestia dissero: – Non abbiamo fatto nulla, solo il nostro dovere. – E sì che tante volte avevano rischiato la fucilazione! ”

Il Partigiano Dartagnan