Libertà d’impresa? Non in rete!

webtvAlla faccia della libertà di impresa!
Viene spontaneo paragonare gli effetti del decreto Romani, unito ai regolamenti dello sceriffo AgCom, a quanto accade al di fuori della rete internet. Ma andiamo con ordine.
Il 4 giugno di quest’anno il ministro dell’economia annuncia l’intenzione di modificare addirittura la Costituzione (cosa che tra l’altro sembra di moda di questi tempi), in particolare l’art. 41 secondo il quale “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Così l’unico articolo della Costituzione che non ha mai dato adito a contestazioni e ricorsi in sede giudiziaria, viene additato come il male del nostro paese in quanto porrebbe i classici “lacci e lacciuoli” che è necessario estirpare per poter far crescere l’Italia. È necessario liberare le imprese, tuona il ministro, si deve uscire dal Medioevo, ed imporre una totale deregulation, insomma libertà assoluta per le imprese.
In verità la modifica costituzionale non è stata nemmeno presentata al Parlamento per iniziarne la discussione, ma è bastato il semplice annuncio per poter inserire nella manovra economica un emendamento che va nello stesso senso del discorso del ministro.
Un senatore, infatti, ha presentato un emendamento che consente ad un costruttore di avviare cantieri senza alcun permesso o controllo preventivo, è sufficiente produrre contestualmente una autocertificazione (detta S.c.i.a.), lasciando all’amministrazione il solo potere di controllo successivo. Quindi libertà assoluta, possibilità di aprire cantieri dovunque, anche in zone sismiche o vincolate, e non solo. I lavori si consolidano 30 giorni dopo la dichiarazione, per cui anche se essa fosse falsa non sarebbe possibile fare nulla a meno che non si dimostri un “danno grave ed irreparabile per il patrimonio artistico, l’ambiente, la salute”. Insomma, piena ed assoluta libertà di cementificare dovunque, senza alcun problema, e cantieri che lasceranno indelebilmente sul nostro territorio la loro “scia”!

Eppure ci si dovrebbe chiedere se davvero la soluzione ai problemi italiani è questa, deregolamentare la costruzione di case. Siamo uno dei paesi con la natalità più bassa, con il maggior numero (oltre un milione) di case vuote, eppure si continua a costruire ed occupare ogni centimetro libero di suolo. Non si capisce nemmeno chi dovrà abitare quelle case. Gli affitti sono comunque elevatissimi, e i soldi buttati, letteralmente, in tale cementificazione selvaggia, potrebbero più adeguatamente essere utilizzati in sovvenzioni per consentire ai senza casa di affittare qualcuna delle tantissime case vuote, secondo programmi di solidarietà che fanno la fortuna di città come Parigi. Invece no, case e ancora case per un paese stracolmo di case, per un business che non aiuta nessuno, se non il solo costruttore che innalza mostri di cemento!

Fortunatamente un sussulto d’orgoglio ha consentito di limitare i danni, modificando l’emendamento suddetto, impedendo che la s.c.i.a. si applichi alle zone vincolate (ma si applicherà alle zone sismiche), allungando i tempi di reazione delle amministrazioni a 60 giorni (ancora troppo brevi), introducendo sanzioni per le dichiarazioni mendaci e cancellando il ridicolo limite dell’intervento delle amministrazioni limitato ai soli danni “gravi ed irreparabili”.

Questo breve excursus su una pagina dell’ordinaria inventiva italiana in materia di legislazione è sintomatico di come determinate cose vengano gestite. Infatti, se il partito del cemento viene premiato con deregulation selvaggia, e la libertà d’impresa viene svincolata da controlli e permessi, anche se l’Italia non ha alcun bisogno di tutto ciò (ma alcuni italiani più italiani degli altri sì, a quanto pare!), se paragoniamo tutto ciò a quanto accade alla rete, non possiamo non essere invasi dalla sorpresa dovuta alla schizofrenia di un legislatore strabico.
Mentre da un lato si liberalizza tutto il liberalizzabile, purché riguardi la realtà fenomenica, quando si tocca la rete si va nel verso opposto, si creano leggi con nuovi lacci, nuovi controlli, nuovi permessi, nuove autorizzazioni.
Il 17 dicembre del 2009 è stato approvato in Italia il cosiddetto decreto Romani, un decreto legislativo che ha recepito (giusto in tempo prima che la direttiva europea fosse abrogata e sostituita da altra) in Italia la direttiva europea 2007/65/CE (AVMSD, cioè Audiovisual Media Services Directive), sulle trasmissioni audiovisive, che equipara alla medesima normativa tutti i fornitori di servizi audiovisivi, indipendentemente dalle modalità con le quali i contenuti audiovisivi vengono diffusi, quindi tramite televisione, satellite o attraverso la rete.
Se l’intento della direttiva europea è ovvio e condivisibile, l’attuazione del decreto legislativo non è proprio in linea, in quanto la norma italiana di fatto ridisegna tutta il sistema audiovisivo italiano trasformando in televisione tutto ciò che è diffusione di contenuti audio video, parificando, quindi alla televisione anche la rete che è fondamentalmente diversa.
Ad una prima versione fortemente criticata è seguita una modifica che non ha risolto però i punti nodali. La modifica ha riguardato l’esclusione dall’assoggettamento alla suddetta normativa dei fornitori di contenuti audiovisivi che non svolgono prevalentemente attività economica oppure che non sono in concorrenza con la televisione, e genericamente i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale.
Ciò vuol dire che saranno assoggettati al decreto in questione tutti i soggetti (anche in rete) che diffondono video, tranne quelli espressamente ricompresi nelle eccezioni esemplificate nel testo, con una tecnica normativa che fa sorgere non pochi dubbi.

Sulla base del testo si possono escludere i siti privati che non svolgono attività commerciale, fermo restando che la raccolta pubblicitaria, di qualsiasi entità essa sia, fa presumere l’attività commerciale. Per dirla in breve il blogger con telecamera a spalla che gira l’Italia per fare interviste e poi le pubblica in rete come video, e che ha un paio di banner giusto per ripagarsi delle spese di viaggio e di hosting, sarà considerato presumibilmente canale televisivo alla stregua di Rai e Mediaset.
Resterebbero escluse anche le persone fisiche o giuridiche che si occupano unicamente della trasmissione di programmi per i quali la responsabilità editoriale incombe a terzi, dove la responsabilità editoriale è intesa come “l’esercizio di un controllo effettivo sia sulla selezione dei programmi, ivi inclusi i programmi dati, sia sulla loro organizzazione in un palinsesto cronologico, nel caso delle radiodiffusioni televisive o radiofoniche, o in un catalogo, nel caso dei servizi di media audiovisivi a richiesta”. E’ ovvio pensare immediatamente a siti come YouTube, e non si può fare a meno di chiedersi se la selezione dei video più “belli” possa essere ritenuta una scelta editoriale o meno!
Ovviamente se questi siti sono parificati alle televisioni, ad essi si applicherà immancabilmente l’intera normativa relativa alle TV, quindi quella sulla par condicio, sulle comunicazioni commerciali e sull’obbligo di rettifica.

Ebbene, di recente, tra maggio e giugno, sono stati pubblicati gli schemi di regolamento attuativi del decreto Romani, con 30 giorni (che scadono tra luglio e agosto quindi!!!!) di tempo per inviare pareri, rigorosamente “tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, corriere o raccomandata a mano”.
I regolamenti dell’AgCom, l’organo che si occupa di determinare i dettagli attuativi del decreto, si può dire che tolgono la maschera alla burla nei confronti degli italiani. Se fin’ora si era potuto asserire che il decreto non minasse alcuna attività in rete, che non fosse altro che l’attuazione della direttiva europea (che invece è sostanzialmente differente sotto numerosi profili), e via di seguito, i regolamenti chiariscono l’intenzione del governo, specialmente se poi analizziamo tali regolamenti tenendo ben in mente quale differente trattamento hanno gli interessi del “partito del cemento”.
Da una parte deregulation selvaggia a favore della libertà d’impresa, ma quando la libertà d’impresa si vuole manifestare in rete, il discorso cambia rotta paurosamente, fino a minarne la possibilità in nuce.

Secondo il regolamento attuativo, infatti, se prima una web TV era sostanzialmente libera, adesso essa deve sottostare ad una miriade di adempimenti burocratici che farebbe impallidire qualsiasi burocrazia. Per capire bene di cosa parliamo, tenete sempre ben presente che queste norme si applicano anche (e soprattutto direi, visto ciò che si trova in rete) ai siti dove un blogger singolo pubblica video di informazione.

Secondo il regolamento, chiunque intenda esercitare un’attività di diffusione televisiva in rete, o trasmissione in streaming, dovrà richiedere all’AgCom un’apposita autorizzazione generale, versare 3000 euro ed attendere 60 giorni che l’Autorità valuti la propria richiesta e la approvi, respinga o, piuttosto, chieda chiarimenti. Alla domanda di autorizzazione deve essere allegata una copiosa documentazione tra cui: il certificato di iscrizione al registro delle imprese, il casellario giudiziale del legale rappresentante del richiedente, il certificato antimafia, i carichi pendenti, una copia del marchio editoriale, una scheda relativa al sistema trasmissivo impiegato (su carta intestata della società! E parliamo di siti internet, nell’epoca della mail e della posta elettronica certificata!), e un versamento fissato in 3000 euro per il primo anno (1500 per i servizi solo audio).
Per i fornitori di servizi media a richiesta (on demand) il regolamento prevede invece una dichiarazione di inizio attività, da completare con la medesima valanga di carta (e pagamento di 3000 euro) per l’autorizzazione di cui sopra, con la differenza che si potrà iniziare subito a svolgere l’attività.
In entrambi i casi, streaming o on demand, i fornitori dovranno conservare per tre mesi copia integrale dei contenuti diffusi al pubblico completa di tutta una serie di informazioni integrative e rispettare tutte le norme a cui sono assoggettati i canali televisivi, in termini di diritto d’autore, comunicazioni commerciali audiovisive, promozione dell’audiovisivo europeo, tutela dei minori, obbligo di rettifica e, soprattutto, sanzioni.
I soggetti che già esercitano l’attività di fornitore di servizi audiovisivi hanno 4 mesi di tempo per depositare la documentazione al fine di ottenere l’autorizzazione alla prosecuzione del’attività.

Il ministro Romani, all’indomani della pubblicazione del decreto, disse che ottenere l’autorizzazione non sarebbe stato più difficile che comunicare al Comune l’inizio di una qualsiasi attività! Chissà quale Comune aveva in mente…
Ecco, quindi, che se una normativa del genere può avere un senso quando ci si riferisce ad un canale televisivo, come la Rai, che sbarca sul web, non si comprende che significato possa avere in relazione alle migliaia di micro web TV che affollano il web e parlano un po’ di tutto. Adesso, grazie a questa contro-deregulation, tutte queste micro web TV saranno subissate di burocrazia, adempimenti di ogni tipo, controlli e soprattutto spese, da 3000 a 6000 euro l’anno a seconda del tipo di attività svolta. Il risultato? Quasi tutte chiuderanno.
Alla faccia della libertà d’impresa!


Commenti
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  1. avatarAndrez - 21 luglio 2010

    E’ inutile, l’ueb e gògol fanno paura.

    Roba da sovversivi, gente  che non si fa lobotomizzare dalle TV, che tendenzialmente ragiona con la propria testa  ed è capace di scrivere di tutto in quei blog.

    Le imprese edili invece son tutt’altra cosa, la nostra casta politica le conosce bene, anni e anni di esperienze. Rendono soldi a pacchi e sotto ai palazzi comodamente ci si può seppellire di tutto.

    Vuoi mettere?  ;Z

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