Le menzogne sull’acqua

acquaIl 12 e il 13 giugno si voteranno, tra l’altro, due referendum che riguardano la gestione dell’acqua. Il primo referendum è relativo alle modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, il secondo quesito riguarda la determinazione della tariffa del servizio idrico in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Per il primo quesito il referendum propone l’abrogazione della norma, mentre nel secondo l’abrogazione sarebbe solo parziale.
Preme sottolineare subito una circostanza, e cioè che tutta la normativa sulla quale si esprimeranno i cittadini a mezzo del referendum in sostanza nasce da lontano ma si trova ad essere modificata principalmente in attuazione di una direttiva europea. Il punto, che ben pochi vi hanno spiegato, è che la direttiva europea è stata stravolta. I difensori dell’attuale situazione, cioè coloro che vogliono che il referendum, per quanto riguarda le norme relative alla gestione delle acque, fallisca, sostanziano la loro posizione trincerandosi dietro alla direttiva europea che, a loro dire, imporrebbe la privatizzazione delle acque. Ma non è così!

Andiamo per ordine. La normativa sulle acque risale al 1865, quando le acque erano considerate demanio pubblico. Poi intervenne la legge 36 del 1994, cosiddetta legge Galli, che prevedeva più semplicemente che tutte le acque superficiali e sotterranee sono pubbliche e costituiscono una risorsa salvaguardata e utilizzata secondo criteri di solidarietà. In pratica si crearono delle aziende che, sotto il controllo pubblico, generalmente dei Comuni, gestivano od affidavano le acque. L’eventuale affidamento avveniva direttamente da parte del Comune o del consorzio di Comuni a società statali, municipalizzate, miste, o anche private.
Con l’abrogazione della legge Galli si è avuta una nuova stagione nella quale si è dovuto ripensare il sistema di gestione delle acque, principalmente in ossequio alle indicazioni proveniente dalla Comunità Europea. In particolare una direttiva europea, detta Bolkstein, che riguarda i servizi pubblici economici in genere, e non solo la gestione delle acque, viene recepita in Italia tramite il cosiddetto decreto Ronchi, numero 135 del 2009.
La direttiva europea presenta una nuova regolamentazione per l’affidamento dei servizi pubblici di “rilevanza economica”, affidamento che dovrà avvenire tramite gare ad evidenza pubblica. Già qui si nota un primo contrasto con la precedente gestione degli enti locali che procedevano con affidamento diretto il più delle volte.
Il decreto Ronchi, all’articolo 15 parla espressamente delle acque, prevedendo in particolare:

– l’affidamento della gestione dei servizi pubblici a rilevanza economica a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica o, in alternativa a società a partecipazione mista pubblica e privata con capitale privato non inferiore al 40% ;
– la cessazione degli affidamenti “in house” a società totalmente pubblica, controllate dai comuni (in essere alla data del 22 agosto 2008) alla data del 31 dicembre 2011 o la cessione del 40% del pacchetto azionario.

Tale decreto è stato approvato definitivamente nel novembre del 2009, e prevede che l’affidamento diretto cessi al dicembre 2011, a favore delle gare pubbliche, prevedendo altresì norme per mantenere fino alla scadenza i contratti già in essere, a fronte di un adeguamento alla normativa (cioè la cessione da parte degli enti pubblici delle loro quote fino a raggiungere il 40% di cui alla norma).

Il decreto Ronchi è stato difeso strenuamente dal Ministro per le Politiche Comunitarie, spiegandolo come qualcosa di necessario a fronte della situazione disastrosa della gestione delle acque in Italia, in particolare ricordando una dispersione idrica del 30%. Secondo Ronchi il decreto non porterà ad una privatizzazione, in quanto le acque rimangano di proprietà pubblica, ma saranno gestite dai privati, i quali, secondo il ministro, offrono una gestione più efficiente rispetto al pubblico. Infatti il decreto prevede espressamente che la rete idrica rimanga pubblica.
Ma il punto essenziale rimarrebbe la necessità di ottemperare alla direttiva europea che chiede la “liberalizzazione” delle acque. Ma è proprio così?

È interessante notare che l’accordo sul decreto fu sostanzialmente unanime all’interno del Parlamento, a parte alcuni partiti che contrastavano la normativa, però in relazione all’impossibilità di affidare il servizio di distribuzione dell’acqua senza appalto pubblico, preferendo invece gli affidamenti diretti a società a capitale misto-pubblico.
Il punto essenziale è però un altro, e cioè che l’Europa non ha mai chiesto la privatizzazione (o liberalizzazione che dir si voglia) del servizio idrico nazionale, per cui non esiste alcun obbligo di adeguamento sul punto alle direttive europee.
Infatti, le direttive europee richiamate in proposito (forse a sproposito!), sono la 92/50/CEE e la 93/38/CEE, richiamate entrambe come punto di partenza della richiesta di apertura alla concorrenza dei servizi pubblici locali e nazionali. I concetti espressi in quelle direttive sono stati ampiamente ribaditi in una ulteriore direttiva regolatrice della materia, emanata il 12 dicembre del 2006, e definita generalmente direttiva Bolkstein dal nome del commissario europeo.
La direttiva in questione ha tutt’altro respiro, rispetto a quanto asserito dai promotori delle privatizzazioni selvagge, anzi si occupa specificamente di creare una normativa quadro, quindi generale, nell’ambito della quale sia resa più semplice la concorrenza all’interno del mercato unico europeo. In sostanza si occupa di eliminare la burocrazia inutile ed eccessiva, spesso utilizzata (Italia docet!) per impedire l’accesso ad uno specifico mercato ad aziende estere.

Orbene, leggendo con attenzione l’articolo 17 della direttiva notiamo che essa esclude esplicitamente dalla regola della “libera circolazione di servizi”, che poi è la traduzione giuridica della formula “apertura al mercato comunitario” (privatizzazione o liberalizzazione), proprio il servizio idrico. E non solo, la direttiva in questione lascia agli Stati membri la possibilità di definire i servizi ad interesse economico, consentendo agli Stati di non liberalizzare i servizi d’interesse generale, né a privatizzare gli enti pubblici che forniscono tali servizi o ad abolire i monopoli
esistenti per quanto riguarda altre attività o certi servizi di distribuzione.
Appare evidente, quindi il contrasto tra la direttiva e il decreto Ronchi che obbliga la cessione delle quote degli enti pubblici che gestiscono attualmente le acque, fino a cedere ai privati il 40%.
Insomma, l’intenzione della direttiva è di impedire che ci siano forme di protezionismo economico di alcuni Stati nei confronti degli altri, e quindi in ultima analisi di ampliare al massimo le possibilità di concorrenza. Il governo italiano ha invece stravolto la normativa europea non facendo alcuna distinzione tra i servizi a scopo di lucro, che possono essere gestiti dai privati e per i quali si deve aprire alla concorrenza, e i servizi di interesse generale che devono avere un trattamento diverso, in tal modo aprendo alla privatizzazione di tutti i servizi indistintamente, consentendo l’affidamento al pubblico solo in via eccezionale.
Si tratta di disposizioni che non si rinvengono assolutamente nelle direttive europee le quali, anzi, invitano espressamente a definire alcuni servizi come di interesse pubblico (quindi non commerciale), mettendoli al riparo dai guasti del mercato.

Anzi, a questo proposito si devono ricordare le risoluzioni europee, dell’11 marzo 2004 e del 15 marzo 2006, entrambe incentrate sul diritto universale all’acqua per tutti i cittadini europei (e non solo) e sull’esclusione della gestione delle risorse idriche dalle norme sul mercato interno. Significativo un passo della seconda risoluzione dove si “dichiara che l‘acqua è un bene comune dell’umanità e come tale l’accesso all’acqua costituisce un diritto fondamentale della persona umana; chiede che siano esplicati tutti gli sforzi necessari a garantire l’accesso all’acqua alle popolazioni più povere entro il 2015”.

In Italia numerosi sono i casi nei quali la privatizzazione è già avvenuta, con affidamento in toto della gestione di acque locali ai privati. Come esempi abbiamo Cuneo, Enna, Caltanissetta, Siracusa, Latina, Aprilia, Frosinone, ecc….
Non è difficile ottenere informazioni su come vengono gestite le acque dove sono privatizzate, e nel contempo comprendere che dove invece sono rimaste saldamente nelle mani pubbliche la gestione è migliore, l’esempio più lampante è a Milano, dove i prezzi sono tra i più bassi in Italia.
Invece dove c’è il privato i prezzi non solo sono altissimi, ma addirittura la gestione ha peggiorato la qualità del servizio e delle acque medesime. Questo è ovvio, un privato non ha alcun interesse a investire nella struttura, a migliorare l’acquedotto, specialmente se non ha la proprietà delle infrastrutture ma ne ha solo la gestione limitata nel tempo, il suo interesse è fare più soldi possibili e basta, non certo di investire in strutture che non sono di sua proprietà, col rischio di perdere quei soldi quando lascerà la gestione.
E, non dimentichiamolo, parliamo di un servizio in regime di monopolio, non in concorrenza, a livello locale. Cioè il privato potrà decidere le tariffe che vuole senza timore che un cittadino possa cambiare fornitore.
È sicuramente vero che in molte zone il pubblico non gestisce bene l’acqua, ma quel pubblico è controllato dagli stessi politici che mirano ad una sostanziale, anche se non formale, privatizzazione di un bene essenziale, a fini puramente commerciali. Le privatizzazioni sono state realizzate da tempo in numerose regioni, dove si è mai rivelata la supposta “efficienza” del privato, anzi, i buchi di bilancio del pubblico sono diventati voragini e le tariffe sono aumentate mediamente del 60% laddove gli investimenti si sono ridotti del 60%. E non solo. Molti richiamano il problema dello spreco delle acque, ebbene per rispondere a questo giusto argomento basti ricordare quanto accaduto nella Toscana, dove l’acqua è in moltissimi Comuni privata (il gestore è francese): a fronte di una diminuzione degli sprechi da parte dei cittadini, il gestore francese ha risposto con un aumento generalizzato delle tariffe perché, appunto, i suoi guadagni erano diminuiti!

E, più illuminante diventa la situazione se andiamo all’estero. A Berlino un referendum ha fermato la privatizzazione, a Parigi l’acqua è tornata pubblica dopo anni di disastri realizzati dalle stesse aziende francesi che controllano l’acqua in molti Comuni italiani (questo è essenziale, la privatizzazione dell’acqua porterà soldi ai francesi non ad aziende italiane!!!). Forse a Parigi non conoscono le direttive europee? Oppure siamo noi italiani che vogliamo fare i furbi?
E se proprio vogliamo parlare di mercato, andiamo a dare un’occhiata alla nazione che più di tutte applica il capitalismo. Anche negli Usa paradossalmente, le risorse idriche restano rigorosamente sotto il controllo pubblico.

Ecco quindi che, alla luce di queste brevi precisazioni, il prossimo referendum sull’acqua assume una diversa importanza. Si tratta non di mantenere pubblica la proprietà dell’acqua (che è sempre pubblica), quanto piuttosto di riappropriarsi della gestione pubblica di una risorsa essenziale per la vita, ed impedire che tale bene diventi una merce. I governi, tutti i governi, tendono a ritenere l’acqua non una risorsa, un bene comune, quanto piuttosto un bisogno, come fossero le sigarette per capirci. Se è un bisogno è evidente che non c’è alcun obbligo di fornirla, ed i cittadini devono procurarsela secondo le loro possibilità. E chi non può?

Possiamo dire che votando SI ai due referendum applicheremo finalmente la direttiva europea in materia, mentre la norma che ha voluto il nostro governo era contraria, la qual cosa ci avrebbe sicuramente portato dei problemi in futuro.
Il primo quesito, infatti, chiede proprio l’abrogazione della norma che privatizza l’acqua, imponendone, contro la normativa europea, l’affidamento in gestione ai privati, e non consentendo, quindi una gestione pubblica. Perché si dovrebbe imporre la cessione ai privati anche là dove il pubblico funziona più che bene?

Il secondo quesito referendario, invece, riguarda la norma che consente di modellare le tariffe a seconda del capitale investito dai gestori. In pratica è una norma che fa dell’acqua non più un bene, una risorsa necessaria per a sopravvivenza degli individui, quanto piuttosto una semplice merce.
Votando SI al secondo quesito si impedisce la mercificazione dell’acqua.

Intervista ad Emilio Molinari,
Presidente del Comitato Italiano del Contratto Mondiale dell’Acqua:


Commenti
C'è solo un commento per ora, perchè non farne un secondo?
  1. avatarAndrez - 2 giugno 2011

    Non è difficile ottenere informazioni su come vengono gestite le acque dove sono privatizzate, …

    Cosa accade quando si privatizza l’acqua?

    Vediamolo a Arezzo e a Aprilia, dove la gestione dell’acqua è stata affidata ad  aziende francesi:

    * aumento delle bollette fino al 1.200%

    * riduzione degli investimenti e crollo della qualità del servizio


    Che il business è business, altro che acqua di tutti.

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