L’Italia è una repubblica fondata sulla precarietà

Nel mentre si discute di scandali e di intercettazioni, nell’assoluto silenzio della presunta opposizione, si è consumato l’ennesima riforma del processo del lavoro che ridisegna anche il quadro del diritto sostanziale.
Il Collegato Lavoro nasce con l’intento di risolvere i cronici problemi di lentezza della giustizia del lavoro, di fatto limitando il ricorso al giudice e sostituendolo con gli arbitrati, cioè la giustizia privata. Con questo provvedimento vengono ridotti anche i poteri del giudice del lavoro che non potrà più contestare le decisioni aziendali, ma dovrà limitarsi ad accertare la legittimità dei singoli atti. Soprattutto il giudice del lavoro sarà vincolato dalle tipizzazioni di giusta causa presenti nei contratti collettivi o nei contratti individuali stipulati dinanzi alle commissioni di certificazione.
Inoltre, ed è il punto più importante, le eventuali controversie che dovessero sorgere tra impresa e lavoratore saranno decise in sede di arbitrato se al momento dell’assunzione, oppure in un momento successivo, il lavoratore opterà per la certificazione del suo contratto individuale dinanzi alle commissioni di certificazione, con inserimento della clausola con la quale il lavoratore si impegna a non ricorrere al giudice del lavoro ma al collegio di arbitri. Il collegio arbitrale, inoltre, potrà decidere, se così indicato nel contratto, sulla base non della legge ma dell’equità, cioè gli arbitri potranno svincolarsi dalle norme giuridiche in materia di lavoro tenendo presente, ai fini della decisione, solo i principi fondamentali della materia.
È abbastanza evidente che, specie in tempi di crisi, nessun lavoratore ha una forza contrattuale sufficiente per rifiutare l’arbitrato, per cui di fatto si è messo nelle mani della giustizia privata la risoluzione delle controversie di lavoro. Non si vuole dire con questo che la giustizia privata è necessariamente a favore delle imprese, ma che la decisione in tal senso è una scelta obbligata anche se è presentata come libera per il lavoratore.

Questo è solo l’ultimo degli esempi di norme che gradualmente, a partire dalla legge Biagi, stanno sgretolando le tutele dei lavoratori, portando al rovesciamento del concetto di diritto costituzionale al lavoro, oggi inteso più che altro come una mera eventualità posta nelle mani delle scelte del mondo imprenditoriale. Il lavoro non è più un diritto del cittadino, bensì una concessione dell’impresa, che ne usufruisce a seconda delle sue necessità. Il fenomeno lo si ritrova puntualmente nelle scelte in materia di immigrazione, laddove le quote annuali vengono basate sulle esigenze delle aziende che, quando i lavoratori non servono più, possono non rinnovare i contratti e creare automaticamente dei clandestini passibili di immediata espulsione.

La precarietà del mondo odierno appare sempre di più un elemento vantaggioso per le aziende, che possono pescare in un bacino di forza lavoro ricattabile perché disoccupati oppure assunti a tempo determinato, o con contratti a progetto. Ovviamente la ricattabilità del lavoratore è un elemento che mal si concilia con i diritti del lavoratore medesimo, e si realizza così un esteso sistema di concorrenza spietata tra lavoratori che hanno la naturale esigenza di sopravvivere: la classica “guerra tra poveri”.
La precarietà è una forma di stabilizzazione del consenso all’interno della stessa azienda, perché nessun precario appoggerebbe le rivendicazioni dei lavoratori a contratto determinato, i quali si possono permettere di reclamare il rispetto dei propri diritti, così la precarietà mina di fatto anche l’unità del fronte dei lavoratori interni all’azienda.

La precarietà e l’inserimento di grandi masse di lavoratori stranieri (al di là delle politiche di espulsione puramente propagandistiche) porta ad una selezione della forza lavoro basata esclusivamente sulla convenienza delle imprese, le quali si possono permettere di creare una concorrenza tra i lavoratori per l’accettazione dei pochi posti disponibili.

La conseguenza della precarietà diffusa è ovviamente l’impossibilità da parte dei lavoratori di finanziare lo sviluppo delle aziende con i loro consumi, dato il basso salario che non consente più tali consumi. Ma di contro la globalizzazione permette alle aziende di delocalizzare non solo la produzione, ottenendo in tal modo spese sempre inferiori, ma anche la stessa offerta dei prodotti in mercati nuovi, come possono essere quelli dei paesi emergenti, Cina ed India.

La precarizzazione, però, comporta un ulteriore e mai evidenziato vantaggio, cioè la possibilità da parte delle imprese di finanziarsi, non più con i consumi dei lavoratori (che come abbiamo visto vengono a mancare), bensì con i finanziamenti degli istituti bancari. Lo stato di precario, infatti, impedisce ad una notevole fetta della popolazione di accedere a mutui e finanziamenti, così liberando ingenti risorse bancarie a totale vantaggio delle imprese, specialmente quelle italiane che notoriamente sono poco propense a investire soldi propri, ma preferiscono ricorrere quasi esclusivamente ai capitali delle banche, anche a costo di cedere alla banca medesima una quota dell’azienda.

Se un tempo la crescita di un’azienda dipendeva, quindi, dai consumi dei lavoratori stessi, oggi tale crescita dipende prevalentemente dall’iniezione di capitali bancari, i quali, non dimentichiamolo, in ultima analisi non sono altro che i bassi salari dei lavoratori depositati negli istituti di credito, che poi vengono rigirati (prestati) alle aziende.
L’ovvia conseguenza di tutto ciò è che le aziende hanno sempre meno interesse a concedere trattamenti adeguati ai lavoratori, che non sono più necessari per la crescita dell’azienda, se non in piccola parte, ma sono sempre più un fastidio ed una spesa inutile.


Commenti
Sono stati scritti 3 commenti sin'ora »
  1. avatarAndrez - 28 marzo 2010

    Il lavoro non è più un diritto del cittadino, bensì una concessione dell’impresa, che ne usufruisce a seconda delle sue necessità.

    I lavoratori  non sono più necessari per la crescita dell’azienda ma sono sempre più un fastidio ed una spesa inutile.

    Condivido la tua bella analisi caro Bruno e vorrei tentare di ipotizzare alcune domande; cosa ha consentito questo sfascio e chi lo ha indotto ?

    Anche oggi come negli anni ’70 o alla fine dell’800 la qualità della vita della classe operaia è determinata dal suo potere contrattuale.
    Esso era inesistente nell’ottocento, data la grande massa di forza lavoro disponibile e l’assenza di organizzazioni operaie. Salari da fame, 14-16 ore lavorative al giorno, lavoro minorile, nessuna assistenza medica e così via.
    Poi una matura presa di coscienza assieme allo sviluppo dell’industrializzazione ha portato la necessità di maestranze più preparate e quindi colte, ben organizzate sindacalmente e con salari tali da poter divenire acquirenti dei loro stessi prodotti. Alla fine degli anni ’70 gli aspetti salariali e normativi garantivano non solo una valida qualità della vita, ma anche l’accesso all’istruzione (le 150 ore) e un’attiva “partecipazione” all’amministrazione del Paese.
    Come hai dettagliatamente descritto, siamo ora in una fase di inesistente potere contrattuale dei lavoratori i quali, in stragrande maggioranza, reagiscono non con la maturità dei loro compagni di fine ‘800 ma con una regressione ideologica e culturale che ne causa il completo asservimento a questa operazione di annientamento dei diritti di una classe sociale.
    * In una visione globale della produzione e di riduzione a provincia cortiliva dell’Italia, medi e grandi imprenditori hanno spostato la produzione all’estero dove mano d’opera e servizi costano meno, creando qui disoccupazione e azzerando il potere contrattuale operaio.
    * Con un abile gioco da saltimbanchi imbonitori in onda da anni a reti unificate hanno sostituito i precedenti valori della qualità della vita con altri di tipo … rampante, come la ricchezza ed il successo, escort e abiti firmati, auto di lusso e coca. Debiti e furberie.

    Il risultato è una classe operaia che vota in massa per gli attuali partiti di governo, lieta di farlo e che considera sindacati e partiti della sinistra i veri responsabili della loro misera situazione.
    I quali fanno il possibile per confermargli tale convinzione.

    Illuminante a riguardo fu Bertinotti, (comunista e sindacalista, tanto per fare un esempio) che nel 1998 fece cadere il primo Governo Prodi per … le 35 ore.
    1998

    2005

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  2. avatarBsaett - 30 marzo 2010

    D’accordo, tranne che sul punto che gli operai voterebbero l’attuale governo lieti di farlo.
    Non dimentichiamo che per lo più la classe operaia (ma ci inserisco anche altre categorie relative ai servizi) è totalmente dipendente dai favori del politico di turno.
    L’operazione di asservimento clientelare è durata a lungo, ma si è ottenuto un gran successo (per le aziende). Primo, smantellare il lavoro (chiudere aziende, delocalizzarle, ecc..), in modo da poter ridurre le pretese dei lavoratori. Secondo, con la giustificazione della necessità di far lavorare tutti (vedi punto 1), si sono introdotte nuove forme di lavoro flessibili (che di per sè non sono male, fin quando non se ne abusa). L’abuso del lavoro flessibile ha creato una classe di lavoratori perennemente ricattabili.
    Per avere un lavoro molti devono chiedere il favore al politico di turno. Ma il politico non può dare un lavoro a tempo indeterminato, perchè poi perde il potere di ricatto sul lavoratore, quindi ecco la necessità che il lavoro sia sempre precario, e il lavoratore è obbligato a votare il politico per poter vivere. Lavoro fin quando lo voto, se non lo voto più non lavoro più!
    Quello che tu chiami “sfascio” in realtà non è altro che un piano congegnato (non è dietrologia, nasce dalla convergenza degli interessi dei governi e dei gruppi industriali, laddove in genere a capo dei gruppi industriali, anche indirettamente, ci sono coloro che reggono i governi) al fine di ricacciare indietro le rivendicazioni dei lavoratori che dal secolo scorso si sono fatte troppo insistenti. Per realizzare tutto ciò è sufficiente solo mantenere il controllo delle informazioni. Unico punto debole del “progetto” è la rete, perchè è difficile da controllare e fa circolare le informazioni.

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  3. avatarAndrez - 31 marzo 2010

    Interessante questo aspetto che evidenzi, della dipendenza della classe operaia dai favori del politico di turno.

    Mi fa ricordare l’aberrante gestione dei finanziamente per i “lavori socialmente utili” del primo governo Prodi. Quello che era senza dubbio un progetto interessante finì malamente strumentalizzato, innanzitutto dal gruppo che ruotava attorno a Bertinotti, per creare ed alimentare clientele, al punto che furono gli stessi disoccupati a denunciarne gli abusi.

    Quello che ho chiamato sbrigativamente  “sfascio”, e che tu giustamente precisi  essere nient’altro che un piano congegnato, nato dalla convergenza d’interessi di governi e di gruppi industriali, laddove in genere a capo dei gruppi industriali, anche indirettamente, ci sono coloro che reggono i governi, lo approfondivo in modo più dettagliato nell’articolo sulla Commissione Trilaterale.   😉

    La cooptazione, (con varie forme di privilegi offerte ai singoli individui) venduta come “concertazione”, ha annientato le resistenze dei partiti di sinistra e dei sindacati ottenendo la cancellazione del radicalismo della lotta e l’annientamento del loro potere contrattuale; la loro funzione oggi è esclusivamente limitata al “baratto” dei livelli minimi accettabili dei diritti. L’annientamento è tale che se oggi si verificano ingiustizie in una grande fabbrica o in un’Università, operai e studenti non contattano i sindacati o i partiti di sinistra, ma chiamano il Gabibbo, o le Iene.

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