Corte Costituzionale boccia il nucleare

no_nucleareOgni tanto una buona notizia.

La Corte Costituzionale boccia il decreto sul ritorno al nucleare

La notizia è stata tenuta nascosta da tutti i media, ma il 9 giugno scorso la Corte Costituzionale ha bocciato una parte sostanziale del decreto legge che sanciva il ritorno dell’Italia al nucleare.

SENTENZA N. 215 ANNO 2010 Udienza Pubblica del 11/05/2010 – Decisione del 09/06/2010 – Deposito del 17/06/2010 Pubblicazione in G. U.

Essa ha cancellato, in quanto incostituzionale, il quarto articolo della legge numero 102 del 3 agosto 2009: il ritorno al nucleare, appunto.

Si è ritenuto incostituzionale  che si sia fatto per l’atomo un provvedimento urgente con decreto legge, affidandone l’esecuzione a capitali privati, che per natura appaiono incerti:  appare dunque un aspetto inconciliabile con l’urgenza stessa.

Il quarto articolo del decreto legge sul nucleare sosteneva che la costruzione delle centrali nucleari era urgente e indispensabile,    che sarebbero  state realizzate con capitali privati, o prevalentemente privati,  che il Governo aveva facoltà di istituire commissari straordinari con poteri esclusivi e totali circa l’ubicazione delle centrali.

Le Regioni Umbria, Toscana, Emilia-Romagna e la Provincia autonoma di Trento  hanno sollevato una questione di costituzionalità su questo articolo e la Suprema Corte ha stabilito che l’urgenza delle centrali nucleari non si concilia con il ricorso ai capitali privati per costruirle: un’azienda investe dove e quando le conviene, non al comando di un decreto legge.

Si legge nella sentenza: “trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza dovrebbe comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato, della realizzazione delle opere medesime”.  Quale urgenza può essere ravvisata se lo Stato non si muove in prima persona? Di conseguenza “non c’è motivo di sottrarre alle Regioni la competenza nella realizzazione degli interventi”.

Domani, 22 giugno, la Corte Costituzionale si pronuncerà sul ricorso più noto contro il ritorno al nucleare, promosso da 11 Regioni, (Lazio, Marche, Umbria, Basilicata, Puglia, Calabria, Toscana, Liguria, Emilia Romagna e Piemonte) anche se recentemente il Piemonte di Cota ha fatto dietrofront.  Questo ricorso è basato sulla mancata previsione della necessità di un’intesa con le Regioni e gli enti locali a proposito dell’ubicazione delle centrali nucleari.

Omofobia. Gioca anche tu!

Ecco il primo torneo dell’omofobia: dove si mettono a confronto le peggiori dichiarazioni dei politici italiani sui gay.

Da Mastella a Renzo Bossi, dalla Binetti a Berlusconi, dalla Mussolini a Pezzotta: uno contro l’altro, a eliminazione diretta, in contemporanea con i mondiali di calcio.

Il terzo scontro vede opporsi Paola Binetti e Renzo Bossi:
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Pomigliano, la Cina e la globalizzazione

Sciopero in CinaTiene banco su tutti i media il braccio di ferro tra la Fiat e i lavoratori di Pomigliano. Marchionne ha anche sostenuto che è essenziale accettare la proposta dell’azienda, a meno che non si voglia “distruggere” l’industria italiana. Il punto è abbastanza chiaro, c’è la crisi (quindi non era vero quando ci dicevano che non c’era o era già alle spalle) e tutti dobbiamo fare sacrifici. La domanda alla quale non si trova ancora una risposta è perché i sacrifici sono troppo spesso a senso unico.
Guardiamo l’accordo proposto ai lavoratori di Pomigliano, un caso che viene presentato come unico in quanto sarebbe il primo di una azienda che fa rientrare in Italia un settore, quindi, si dice, è necessario andare incontro all’azienda che fa, lei, dei sacrifici. Poiché all’estero l’azienda trova lavoratori a salari più bassi, perché l’azienda possa far rientrare quella produzione in Italia è necessario che si livellino ulteriormente i salari in Italia.
Non ho mai creduto né a miracoli, né alle fatine, se l’azienda riporta quel business in Italia vuol dire che le cose fuori dall’Italia vanno male, non c’è altro motivo.

Tornando all’accordo di Pomigliano, gli esperti sono molto cauti nel valutarlo, ma di fatto appare prima facie incompatibile con i principi fondamentali della Costituzione. L’accordo, già firmato da alcuni sindacati, ha delle forti criticità in merito alla tutela e alla sicurezza dei lavoratori, innanzitutto per quanto riguarda la riduzione delle pause di lavoro che, come dimostrato da vari studi, comporterà un maggiore verificarsi di infortuni: quando si riducono le pause il livello di attenzione diminuisce e la sicurezza anche.
L’altro punto critico riguarda l’impossibilità di portare avanti azioni collettive di protesta, di sciopero o assemblee, che altrimenti potrebbero portare ad una risoluzione dell’accordo da parte dell’azienda. Stiamo parlando di quel diritto di sciopero riconosciuto a livello costituzionale, ma anche dalla Corte europea di giustizia, come diritto sociale fondamentale non sindacabile.
In sintesi, anche se con una certa ovvia cautela, gli esperti sostengono che quell’accordo, in quanto elimina garanzie costituzionali, potrebbe essere annullato se portato dinanzi ad un giudice.
Il punto fondamentale, però, è che si negoziano diritti costituzionali a mezzo di un semplice contratto privato, cosa non ammissibile.

Ma perché la Fiat riporterebbe in Italia una catena produttiva? Sinceramente non credo proprio che sia per magnanimità, probabilmente è solo perché le condizioni di lavoro all’estero stanno mutando, anche se qui in Italia non ce ne accorgiamo (a livello di informazione ormai siamo tagliati fuori dal resto del mondo, se ci riferiamo ai giornali e alle televisioni), e quindi parrebbe che, addirittura, le condizioni migliori per le aziende, dopo anni di pressioni per ridurre le tutele e i diritti dei lavoratori, con la scusa delle crisi, adesso si trovino in Italia. In particolare, a differenza di quanto accade in altri paesi (uno per tutti: la Cina, anche se può sembrare difficile da credere!), in Italia il governo pare appoggiare le aziende e non tutelare i lavoratori. Ecco perché la Fiat rientra.

Una analisi delle condizioni lavorative di altri paesi è improponibile, anche sinceramente difficile, ma forse potrebbe essere utile qualche accenno ad una realtà che è sempre stata additata come tra le peggiori, cioè la Cina, presa generalmente ad esempio come paese dove i lavoratori sono trattati come schiavi.
In realtà le cose non sono più così, e da tempo, la Cina ha dovuto fare passi in avanti in pochi anni, in un paio di generazioni i cinesi sono passati dalla vita in caverne (letteralmente) a case con condizionatori ed auto. Questo ha provocato difficoltà di molti tipi, principalmente a livello di inquinamento, visto che si è dovuto creare una rete di produzione energetica in grado di gestire tutta l’industria nascente, e si è partiti dalle industrie più inquinanti. Ma anche nel campo della tutela dei lavoratori si è dovuto partire da zero, o quasi. Però anche qui i passi in avanti si fanno, ed anche velocemente.
Stiamo parlando di un miliardo di persone che in poche generazioni ha gestito (e subito) i cambiamenti che noi occidentali abbiamo gestito in centinaia di anni. Sarebbe stato impossibile non avere delle disfunzioni. Lungi da me l’idea di difendere un paese che si presenta in realtà come un regime autoritario nel quale la libertà è spesso minacciata e la rete internet è costantemente controllata, ma è un paese esemplificativo di ciò che sta accadendo nel resto del mondo, un paese che ci spiega che la globalizzazione sta raggiungendo un punto di svolta.
Se fino ad ora era molto semplice per un azienda chiudere in patria per spostarsi all’estero, casomai proprio in Cina, ed ottenere delle condizioni di favore, adesso ciò non rende più come prima. Per una azienda chiudere una produzione in Italia, tanto per fare un esempio, è lavorativamente indifferente. Utilizzerà 100 lavoratori all’estero come li utilizzava in Italia (senza interessarsi minimamente delle 100 famiglie buttate per strada), ma all’estero, complici i salari più bassi, potrà applicare un ricarico maggiore ed ottenere margini superiori, concentrando tutta la spesa sulla pubblicità del marchio.
Così si sono create le famigerate zone franche che Naomi Klein in No logo descrive mirabilmente: India, Cina, Sri Lanka, Filippine, Taiwan, Corea del Sud, Vietnam, Messico, dove lavoravano fino a 27 milioni di lavoratori, con giornate fino a 14 ore di lavoro.
Ma oggi la delocalizzazione all’estero comincia a mostrare l’altra faccia della medaglia, cioè la perdita di qualità dei prodotti, con evidenti ricadute sulla credibilità dell’azienda (e del marchio), ma, di contro, anche lo spettro del vecchio Marx, che ci ricorda una verità che molti sembravano aver dimenticato, cioè non basta produrre, si deve anche avere un mercato che assorba i prodotti.
Se si delocalizza un’azienda, alla fine si deve delocalizzare anche il mercato di riferimento, e ciò alla lunga comporta il medesimo problema che porta alla delocalizzazione dell’azienda.
I punti sono due quindi, prima di tutto la manodopera che deve essere qualificata per determinati prodotti, altrimenti la qualità cade. In tal senso proprio in Cina si vedono i primi effetti, aziende che non delocalizzano più, se non una piccola parte della produzione, perché la manodopera estera non è sufficientemente qualificata.
E poi il problema del mercato. Se si delocalizza tutta l’industria di un paese, quel mercato muore, e non potrà più assorbire alcuna produzione, e ciò alla lunga danneggia irrimediabilmente l’azienda, specialmente se si tratta di aziende italiane che, purtroppo, sono ben poco abituate a competere in regimi di concorrenza avendo sempre vissuto in un paese dove il governo ha badato a proteggere sempre i capitali, le aziende, le famiglie che gestivano le aziende, e meno i lavoratori.

E così in Cina si comincia a vedere la Foxxcon che si piega ai voleri degli operai cinesi, e non delocalizza in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile, e per produrre gli iPod di qualità non basta un operaio qualsiasi. E lo stesso accade alla Honda, bloccata da un ondata di scioperi, quegli stessi scioperi che in Italia vogliono abolire, in Cina diventano diritto dei lavoratori in base ad una nuova legislazione introdotta tra il 2007 e il 2008 che garantisce contrattazione collettiva, minimi salariali e buonuscita. Nel corso del 2010 i salari della zona industriale del fiume delle Perle sono raddoppiati, e dal 2008 i tribunali processano le aziende straniere per difendere i diritti dei lavoratori.
Stranamente i giornali di mezzo mondo celebrano la vincita della classe operaia cinese, credendo sia da vedere come un indebolimento del potere centrale. Niente di più falso, è stato il governo centrale che ha voluto la nuova legislazione e adesso pretende che gli stranieri la applichino, pretende di fare quel passo ulteriore che noi occidentali adesso ci stiamo rimangiando, cioè pretende una tutela dei lavoratori. In Cina accade che il governo sia più forte delle aziende mentre in Europa, almeno una parte, qualche governo si sdraia al passaggio delle aziende.

Questo è il quadro che si sta preparando in Cina, e le aziende straniere, delle quali tutto si può dire tranne che siano rette da individui non in grado di comprendere le dinamiche sociali, si stanno rendendo conto che l’aria all’estero si fa più pesante, e la globalizzazione, per varie ragioni, non è più quel vantaggio che si è rivelata per anni. E quindi preparano il ritorno nei loro paesi di origine, se proprio non sono disposte a concedere le nuove tutele ai lavoratori stranieri.
Il mercato cinese non è più disponibile come una volta, però rimane la possibilità di delocalizzare verso i paesi dell’est europeo (come la Polonia dove minaccia di andare la Fiat), peccato che in quelle zone si trovano si bassi salari (350 euro circa), ma non esiste un mercato in grado di assorbire la produzione, a differenza della Cina. Una produzione non può esistere senza un mercato che la assorba, e questo è un dato di fatto imprescindibile, il punto che alla fine è venuto a galla. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva alla classe operaia che aiutava a produrle, se togliamo la fabbrica (e il salario) agli operai italiani e paghiamo 350 euro agli svolacchi, chi comprerà la moderna utilitaria ? Nessuno.
E parliamo di una Fiat che sostanzialmente non è in grado di competere con le altre grandi aziende sui mercati esteri, di un Italia che non è mai stata una grande esportatrice, e di una classe media ed operaia che sono più povere di 20 anni fa.

Forse è questo il motivo per cui la Fiat torna in patria, ma, facendosi forza della scarsissima conoscenza della realtà estera, e cinese in particolare, pone il suo aut aut: “torno se le condizioni in Italia si livellano verso il basso”.
Se dovesse passare questa idea, l’Italia potrebbe diventare la nuova Cina, territorio di caccia per le aziende spregiudicate che cercano i più bassi salari e le peggiori tutele per i lavoratori.
Forse ci si dovrebbe rendere conto, finalmente, che lo spazio per crescere c’è, ma bisogna crescere insieme, se l’azienda cresce mentre gli operai perdono salario e tutele, non si va da nessuna parte.

Nota: leggo sui giornali di oggi che un gruppo di operai polacchi della fabbrica di Tychy dichiara: “La Fiat gioca molto sporco con i lavoratori: chiedono agli operai italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. Chiediamo ai colleghi italiani di resistere, perché bisogna mostrare alla Fiat che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni”.

La classe operaia vota Berlusconi (e Bossi)

lavoratori_Carroccio Il partito di Berlusconi e la Lega (assieme ovviamente a Confindustria e al padronato in genere) stanno operando col ricatto l’ennesima manovra di distruzione di ciò che resta dei diritti dei lavoratori.

I lavoratori a Pomigliano il 22 giugno dovranno rispondere a questo quesito referendario:  “Vuoi che la Fiat chiuda e ti licenzi, oppure rinunci ai tuoi diritti, compreso quello allo sciopero? Rispondi!”

Vedi Video

Le analisi sulle recenti tornate elettorali mostrano che una elevata percentuale di lavoratori ha votato (ed intende rivotare) per il partito di Berlusconi o per la Lega.

Che è successo e che sta succedendo?

Le battaglie per i diritti che gli operai hanno fatto tra gli  anni ’60 e  ’80 sono state vinte perchè le condizioni “di mercato” di quei periodi  lo consentivano. L’industria cresceva e vi era una forte domanda di lavoro specializzato; ai padroni serviva una classe operaia istruita, capace di far funzionare nuove attrezzature, e con un buon salario, tale di consentire loro l’acquisto dei tanti beni che essi stessi producevano, dalle 600 ai frullatori.

Non c’era la globalizzazione allora nè l’Europa, ed il padronato era costretto a fare i conti con la propria forza lavoro nazionale, riuscendo appena a giocare sul serbatorio di manovalanza disoccupata del sud.

Ma anche nel caso della contrattazione sindacale è questione di domanda e offerta;  quando l’offerta di mano d’opera supera la domanda, il suo valore crolla. E con esso pure i diritti conquistati.

Nel prossimo futuro la situazione appare destinata a peggiorare. Abbiamo più volte ipotizzato un miglioramento di questo rapporto di forze con l’emancipazione dei lavoratori delle aree del pianeta ex sottosviluppate ed ora in forte crescita, come Cina e India, ma più procede lo sviluppo in quelle aree e più ci si rende conto che questo non potrà accadere. Certo quei lavoratori hanno già ottenuto miglioramenti ed altri ancora otterranno, ma resteranno ben lontani dalle condizioni salariali e normative dei lavoratori italiani ed europei, in quanto in quelle nazioni i disoccupati, la forza lavoro disponibile, appare infinita. Senza contare il  Sudest Asiatico o il Brasile, solo in India e Cina vi sono (e vi saranno sempre più) miliardi di lavoratori disponibili, pronti a lavorare a qualsiasi condizione. E con essi un corrispondente bacino di miliardi di consumatori.

Questi lavoratori oggi non hanno diritti sindacali,  salari medi attorno ai 2-300 €./mese e servizi (scuola e sanità) relativamente pur decorosi rispetto ai precedenti, ma tali da consentire loro poco più della sopravvivenza (come descritto nell’analisi di Marx nel Capitale per i lavoratori europei di metà ‘800).  Questi operai consentono la fabbricazione di beni a costi fortemente contenuti e spesso in fabbriche finanziate, gestite o dirette da europei; come potranno mai competere le fabbriche europee che devono far fronte a costi forza lavoro che superano i 4.000 €./mese?

Come oggi a Pomigliano, o rinunciano a diritti, parte di salario e lavorano di più o la fabbrica si sposta fuori dall’Italia.

I lavoratori europei (solo alcuni milioni) non potranno che essere costretti a livellersi a quelli cinesi o indiani (se pur leggermente migliorati) e non il contrario come una volta auspicato.

E torneremo presto ai livelli di inizio secolo o poco più.

Credo che in Italia oggi vi siano almeno un paio di anomalie che, prima o poi, saranno superate; il caso Berlusconi e la casta partitica che in modo complementare l’uno all’altro stanno intossicando il Paese. Non so quanto tempo ancora li dovremo subire, ma è ragionevole pensare che tutto questo avrà una sua fine, come sono finiti il peronismo in Argentina e Salazar in Portogallo, i Colonnelli in Grecia e … Bush in USA.  Mentre invece penso che la tendenza all’allineamento delle classi produttive a quelle di Cina e India, Brasile o Bulgaria sia una deriva oramai fisiologica con la quale dovremo fare i conti.

Queste anomalie italiane hanno reso possibile una forte anticipazione di questo processo, operando sin dagli anni ’80 un vero e proprio condizionamento televisivo sui lavoratori (e cittadini in genere) spostando gli ideali ed i modelli di vita all’effimero e al rampantismo.

Isolato e privato da confronti e dibattiti, abbandonato dai partiti di sinistra, privato dell’istruzione e bombardato costantemente dalle TV con messaggi condizionanti, il lavoratore è stato portato a credere nel mito del successo individuale, dell’acquisto facile a rate e della ricchezza a portata di mano e, paradossalmente, nel momento in cui ha perso lavoro e salario, casa, diritti e decenza,  è portato a ritenere tutto suo l’insuccesso, il mancato raggiungimento dell’ambìto gradino sociale vaneggiato vergognandosene, e guardandosi bene dall’addossarlo a chi successo e ricchezza ha invece ampiamente ottenuto, a spese del lavoratore, con cricche e truffe, corruzioni e ruberie.

In questo grigio scenario è inseribile anche la manovra, in corso, del Presidente Obama che tende al superamento della produzione di energia inquinante sostituendola con altra rinnovabile; è certamente un ottimo passo per il pianeta e per il genere umano, ma in sintesi è la fine di una lobby industriale e finanziaria, (quella del petrolio, ancora potentissima), che sarà sostituita da un’altra lobby, quella della green economy. Per i lavoratori coinvolti nell’operazione, a livello salariale e normativo non cambierà nulla.

In controtendenza con questo intero ragionamento appare invece la recente Riforma Sanitaria, che Obama ha quasi imposto, e che consente di assistere migliaia di cittadini indigenti, e a carico della collettività.

Lascio a voi i commenti.  :mrgreen:

Legge bavaglio; come aggirarla

legge-bavaglioCome scriviamo da tempo, se la legge bavaglio dovesse essere approvata, come tanti altri strumenti di informazione anche noi non potremo più continuare questa esperienza.

Almeno non come abbiamo fatto sino ad ora.

Navigando in rete abbiamo trovato un Blog sul quale è possibile inserire informazioni liberamente, in quanto non è sembra essere soggetto alla censura italiana: http://www.grande-fratello.biz/

Vi invito a iscrivervi e partecipare a quella esperienza con qualsiasi mezzo abbiate a disposizione.