Da Persiceto a El Gouna

Era oramai  il tramonto e dalla mattina percorrevamo la pista sabbiosa che da  Port Safaga portava a Suez costeggiando il mar Rosso. La spiaggia era un deserto di dune che finiva in acqua e a tratti mostrava carcasse di blindati devastati dalle bombe, resti della guerra del Kippur.  Frequenti inquietanti cartelli: Mine.

La pista era al limite del praticabile e spesso appariva ostruita da frane e smottamenti che ci costringevano a lunghe deviazioni fuoristrada arrampicandoci tra dune e rocce scoscese.

Superata Hurgada lasciammo la costa e ci inoltrammo ad ovest verso l’interno seguendo un sentiero che risaliva il letto di un hued, un fiume secco. Avevamo saputo che da quelle parti c’era un convento Copto che di solito ospitava i viandanti, e lì avevamo deciso di passare la notte.

Il letto del fiume ben presto penetrò tra le montagne fino a divenire un largo canyon roccioso, e dopo un paio d’ore ci apparve il convento. Era il tramonto e con la luce rossa e bassa del sole le mura ocra vagamente merlate apparivano magnifiche.  Bussammo e ci fu aperto. Un paio di monaci con lunghe tuniche nere coperti da cappuccio aprirono un massiccio portone e ci fecero entrare senza fare domande, ci indicarono un posto dove lasciare le moto e, dopo aver accuratamente richiuso e sprangato il portone (!!), ci accompagnarono all’interno di strette viuzze fino ad un ambiente scavato nella roccia dove ci indicarono alcune panche con tavolacci invitandoci a sedere. Poi sempre in silenzio scomparvero.

L’ambiente era privo di finestre ed interrato, in alto in un angolo mostrava un pertugio che comunicava con un’altra camera da dove nella penombra figure scure a tratti ci osservavano.
 Tornò qualcuno sempre incappucciato e sempre in silenzio ci porse acqua e un paio di scodelle in terracotta colme di zuppa di verdure. Erano squisite.

Quindi ci accompagnarono per le scale scoscese di una torre sino ad uno stanzino dove erano una coppia di pagliericci su cui stendemmo i sacchi a pelo e dove ci addormentammo in un attimo.

La mattina fummo svegliati dal  sordo eco corale di una litania che proveniva da chissadove sottoterra. Il cielo appariva azzurro e terso dal finestrino. Ci vestimmo e scendemmo. Nel cortile fummo rassicurati dalla presenza delle moto e poi subito raggiunti da una coppia di monaci, sempre coperti e sempre silenziosi, che ci aprirono il pesante portone.

Davanti a noi appariva la pista desertica del canion che riportava al Mar Rosso; avevamo benzina e voglia di guidare.

Mentre Valter infilava il suo casco mi voltai e parlai al monaco chiedendo “how much”; mi rispose nulla con un gesto della lunga manica della tunica. Allungai dunque la mano, sicuro di voler stringere la sua, al chè da quella manica uscì un moncherino roso dalla lebbra che, dopo un attimo di esitazione, strinsi con vera amicizia.

A casa poi appresi che quel tipo di lebbra era “secca” e non contagiosa.

Era il 1984.


Commenti
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  1. avatarAndrea Cotti - 12 febbraio 2014

     

    • Valter Pederzoli  Eravamo nel nome della rosa senza saperlo. Noi non siamo i veri Andrea e Valter, quelli sono stati uccisi e buttati nel pozzo del castello, noi siamo due cloni copti di noi stessi medesimi. Tutto vero! A casa ho dato fuoco al sacco a pelo, ruggiva e faceva dei salti.

       Ci hanno uccisi tra marzo e aprile 1984 tra un mese festeggiamo i 30 dalla nostra dipartita.  grazie, bei ricordi, un grande viaggio.

     

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